giovedì 27 dicembre 2012

Il Nathalocus di James Clerk Maxwell

Scusate, è da molto tempo che non aggiorno il blog, ma le ultime settimane sono state davvero piene e intense. Del resto prima di Natale la solita routine diventa un vero e proprio delirio, tra i regali da fare e da impacchettare, le persone da incontrare e i preparativi per le feste.

Stavolta però voglio scrivere un post diverso dagli altri, perché desidero condividere la felicità per la pubblicazione del mio primo lavoro: le poesie di James Clerk Maxwell.
Diciamo che l'uscita proprio nel mese di dicembre di questo volume è stato un gran bel regalo di Natale. È infatti dal mese di maggio che con un'altra ragazza, Erika Serra, ho iniziato a lavorare alla traduzione di queste poesie per uno stage post laurea presso l'Archivio Dedalus di Milano. In sette mesi, sotto la direzione della signora Paola Magi, ideatrice del progetto, e con l'aiuto della professoressa Teresa Prudente, autrice della prefazione e "supervisore" della traduzione, abbiamo redatto il volume. È stato un duro lavoro di squadra, a tratti faticoso ed estenuante, ma il risultato mi ha dato enorme soddisfazione.

Copertina del libro

Di solito il nome di Maxwell si ricorda per ben altri motivi. Chi ha studiato un minimo di fisica ricorderà sicuramente il suo nome, poiché James Clerk Maxwell è stato uno dei primi scienziati a compiere degli studi importantissimi sull'elettricità e il magnetismo, dimostrando che i due fenomeni sono connessi tra di loro. Inoltre, Maxwell ha collegato alla teoria dell'elettromagnetismo anche il fenomeno della luce. Tutto questo lavoro è sfociato nelle quattro celebri equazioni di Maxwell, che hanno unito per la prima volta nella storia della fisica tutti i fenomeni elettrici, magnetici e luminosi. 
Pochi però sanno che questo luminare della fisica si dilettava a scrivere poesie. E sicuramente ne traeva enorme piacere, vista la cura nelle rime e nei giochi di parole. Questi componimenti sono di ogni tipo: poesie d'occasione, filastrocche, poesie oniriche e di argomento scientifico. La varietà dei suoi scritti riflette la molteplicità dei suoi interessi, sia in campo scientifico, sia umanistico. Maxwell ha trasposto in versi degli esperimenti e delle teorie scientifiche, e anche parte del proprio universo interiore, come tutti i veri poeti. Il fisico parla spesso dell'ambiente accademico, talvolta con benevolenza, ma molte altre criticando la rigidità dei suoi membri. Secondo Maxwell troppe volte i sedicenti scienziati vogliono racchiudere il mondo in aride leggi matematiche, sperando di trovare in una formula vuota la soluzione di tutto. Ma il fisico scozzese si rifiutava di pensare che in tal modo si potesse comprendere tutto. Anzi, per lui la saggezza si acquisiva solo dopo che si era disposti a lasciar perdere la ragione, la logica, la matematica, e a farsi trasportare dal nonsense. Perché il mondo che ci circonda è troppo grande per essere compreso in maniera definitiva dalle leggi scientifiche. Per Maxwell il mondo NON può essere costituito solo da leggi fisiche, e chi non è disposto a fermarsi alla contemplazione del mistero e del trascendente che pervade la realtà rimane un ignorante che pensa di sapere tutto, quando invece non sa nulla.
Era uno scienziato molto particolare, Maxwell, uno scienziato con una fede profonda. L'idea del trascendente compare spesso nelle sue poesie, senza contrapporsi all'indiscutibile indole scientifica del fisico. Questo mistero, questa idea del trascendente si può collegare forse anche al nonsense di cui egli parla. La scienza, senza la consapevolezza che comunque non si arriverà a spiegare tutto, non è vera scienza. Perché la scienza acquisisce valore solo quando si riesce a capire che bisogna farsi trasportare e a farsi penetrare da questo mistero, da questo nonsense per avvicinarsi alla realtà, per capirla veramente. In quest'uomo, fede e scientificità non solo si conciliano in un modo che per noi oggi appare impensabile, ma diventano l'una indispensabile all'altra nella conoscenza progressiva del mondo e delle leggi che lo governano. 

James Clerk Maxwell

Oltre all'amato-odiato ambiente accademico, Maxwell rende protagonista di alcuni scritti anche la propria terra natale, la Scozia. In diversi componimenti si nota l'amore per la patria di Maxwell, che sovente inserisce dei termini scozzesi o, addirittura, scrive intere poesie in Scots. Visto che in questo blog mi occupo di miti, storia e leggende, vorrei riportare uno di quei componimenti che parla di un pezzo di storia della Scozia.
Correva l'anno 242 d. C., quando il nobile Nathalocus prese il potere e diventò il trentesimo re di Scozia dopo aver capitanato la congiura che aveva deposto il sovrano precedente, Athirco. Costui, dopo un primo periodo in cui godette del favore dei sudditi, con l'età si diede a una vita sregolata e piena di vizi, che suscitarono la rabbia di molti nobili tra cui Nathalocus, la cui figlia venne violentata da Athirco.
Tuttavia, Nathalocus non si rivelò un governatore migliore di Athirco. Nonostante fosse a capo della cospirazione che depose il precedente sovrano, Nathalocus era inviso a molti nobili. Consapevole di ciò, egli nominò come ministri dei membri della plebe, che erano più inclini all'obbedienza rispetto ai nobili. Inoltre, quando seppe che il fratello e i figli di Athirco, fuggiti durante la rivolta, mantenevano contatti epistolari con alcuni membri dell'aristocrazia, egli convocò in consiglio gli uomini sospettati, fingendo di aver bisogno di loro per deliberare sulle sorti del regno. Quando questi arrivarono al suo cospetto, li fece imprigionare e la notte stessa i malcapitati vennero strangolati.
Questa condotta, anziché placarli, fomentò i focolai di ribellione che già erano presenti alla corte di Nathalocus. Tutti temevano che i sospetti del sovrano si riversassero contro i propri cari, così presero le armi contro il nuovo re, che morì colpito proprio da uno dei domestici.
  La poesia di Maxwell narra proprio l'uccisione di Nathalocus, episodio sul quale venne costruita la leggenda narrata nel componimento. Sapendo di trovarsi in un momento delicato, Nathalocus mandò uno dei propri servi a interrogare una veggente riguardo alle sorti del proprio regno. La strega rivelò al servo una verità sconcertante: la vita di Nathalocus non sarebbe durata a lungo e sarebbe stato proprio il servo a spezzarla. Riporto qui il testo tradotto in italiano della poesia di Maxwell, senza le note a pié pagina.

 (NATHALOCUS) [1845]

I
DESOLATO era il sentiero e arida la montagna,
Mentre il viaggiatore passava nel suo faticoso cammino;
Sigillato dal ghiaccio era ogni zampillo d’acqua mormorante,
E il sole brillava attraverso la nebbia con il raggio color sangue.
Ma né la strada né il pericolo messi insieme
Intaccavano il suo proposito, nemmeno il tempo inclemente;
Così andò avanti il viandante attraverso la fitta erica,
Finché arrivò alla grotta dimora delle terribili streghe.

II
Scavata nella roccia era quella caverna tanto squallida,
E l’entrata da arbusti era celata alla vista,
Ma egli trovò il modo di entrare e, stanco per il viaggio,
Con gioia scorse nell’oscurità una luce.
E in un recesso di quella straordinaria abitazione,
Udì sempre più forte e selvaggio levarsi lo strano canto della strega,
Che senza sosta con magici numeri raccontava
Le sorti dei regni, l’esito della battaglia.

III
Si levò la strega appena il viaggiatore entrò,
“Benvenuto”, disse, “e quali nuove dal re;
e perché a domandare di me si è così azzardato,
quando sa che la risposta porterà distruzione?
Siediti qui e aspetta”. Allora volgendo il pallido viso
Là dove nell’oscurità bruciava il debole lume,
Prese un libro della sua sapienza magica,
E con numeri profetici si preparò a cantare.

IV
Ora è seduta, la tenda è sopra di lei,
La divinità è su di lei; aspetta perciò e odi!
Il vapore si alza in volute davanti a lei,
E nell’oscurità appaiono le forme del futuro.
Ascolta, ora la divinità sta portando l’ispirazione,
Non è sua la voce che nella caverna risuona;
No, poiché è il suo demone che sta intonando la canzone,
E queste furono le parole della veggente che rende folli.

 V
“Schiavo del monarca, torna dal tuo signore,
All’orecchio di Nathalocus sussurra queste parole;
Digli, da parte mia, che il Tempo Andato può volare più veloce
Di quanto [egli] pensi, giacché l’ora della sua morte è vicina;
Alludi al suo fato con il dovuto mistero,
Ma non fargli sapere attraverso chi sarà compiuto”;
“Dimmelo, spregevole strega, o ti giuro che te ne pentirai!”
“Sei tu l’assassino”, rispose la veggente.

VI
“Sarei talmente cane da compiere una simile azione!”
Rispose il condottiero mentre la rabbia in lui montava,
“Potrei io, ingrato, essere alla testa di una fazione,
E dirmi uno dei nemici di Nathalocus?”
“Basta”, disse la strega, “l’incantesimo è terminato,
Non sfido la rabbia del demone offeso,
Qualunque sia il tuo destino, non più lo si può cambiare”.
Così lo straniero prese la via del ritorno attraverso la fitta neve.

VII
Dall’alto del suo nido l’aquila gridava,
Pallidi spettri avvolti in un lenzuolo si aggiravano nella brughiera;
Brillante negli occhi della sua mente un pugnale luccicava,
Aspettando il momento di spuntare dal fodero.
Rauco gracchiò il corvo che volava verso est;
Doveva certo sapere del re morente;
Giù nel fiume il Kelpie gemeva,
Piangendo il re nella profondità delle acque.

VIII
La sua mente era confusa per questo terribile avvertimento,
Spettri orribili furono con lui tutta la notte;
Pietrificato nel suo dolore desiderava la mattina,
Maledicendo il giorno in cui per la prima volta aveva visto la luce.
Nel suo delirio disse, “il giorno che mi partorì,
Meglio sarebbe stato se mia madre a pezzi mi avesse fatto;
Guarda, c’è il corpo di Nathalocus davanti a me;
Via, ombre vane, sparite alla mia vista!”

IX
E quando dal palazzo il re lo mandò a chiamare,
Per sentire quale responso portasse dalla strega;
Quando il messaggero pensò che lo straniero lo avrebbe salutato,
Non gli rivolse altro che uno sguardo inespressivo.
Sul suo viso vi era un sorriso, ma non di gioia,
Poiché in lui non vi era altro che inconsolabile tristezza.
E nei suoi occhi c’era il bagliore torvo della pazzia, –
“Nella camera privata del re, gli risponderò lì”.

X
“Ditemi, mio sovrano, ho forse mai disubbidito;
Sono mai stato sorpreso fuori dal mio posto;
Non vi ho servito fedelmente, lealmente,
Nonostante il pericolo e la morte mi guardassero dritto in faccia?
Sono forse stato visto fuggire dal nemico,
Ho forse mancato nel più aspro tra i pericoli?
Oh, se l’ho fatto, giudicatemi degno di morte,
Mi si copra di vergogna e disgrazia!

 XI
“Potreste immaginare che potrei tradirvi,
Io, che sono stato benedetto dalla vostra bontà e amicizia?
Ma il responso della strega fu che la mia mano vi avrebbe ucciso,
È questo che per lungo tempo mi ha privato del riposo,
È da allora che il mio sonno si è rotto,
Ma vere sono le parole che la profetessa ha pronunciato,
Nathalocus, eccone la prova”,
Così dicendo affondò il pugnale nel suo petto.



 Un'atmosfera lugubre, il paesaggio desolato e freddo della Scozia. La magia di questa terra, abitata da streghe e demoni, come il citato kelpie, che ne infesta i laghi e i fiumi e che si presenta spesso nella forma di un cavallo nero. La storia antica e il folklore della patria natia stavano estremamente a cuore a quell'uomo che ben più del fisico e dello scienziato che conosciamo.

 Maxwell, oltre a rappresentare il mio primo lavoro di cui vado fiera (è la prima traduzione in italiano, nonché il primo volume italiano che raccoglie le sue poesie) mi ha ricordato quanto complesso è l'essere umano. Che se anche si crede nella scienza e si lavora sull'elettromagnetismo, non è detto che non si possa scrivere poesie e credere in Dio. Fisico, poeta, umorista, accademico, filosofo, patriottico. Insomma, uomo. Questo era James Clerk Maxwell.




Fonti:
- MAXWELL, James Clerk, Poesie (1844-1878) (a cura di Teresa Prudente), traduzione a cura di Greta Fogliani ed Erika Serra, Edizioni Archivio Dedalus, Collana Supernovae di Paola Magi, Milano, 2012;
- WATKINS, John, The History of Scotland Translated from Latin of George Buchanan, Henry Fisher and P. Jackson, London, 1831, pp. 82-83.

lunedì 10 dicembre 2012

I calendari maya - Il conto lungo

 Eccoci arrivati all'ultimo argomento riguardo ai calendari maya. In realtà, ci sarebbero molti altri cicli conteggiati da questo popolo (il calendario lunare, il ciclo di Venere, il calendario rotondo, ecc.), ma non li tratterò in questa sede, poiché non sono strettamente connessi alla profezia di cui tanto si parla. Oggi tratterò infatti in maniera più concreta del ciclo che ha fatto pensare ad alcuni che il mondo possa finire il 21 dicembre 2012: il conto lungo.

La piramide di Chichén Itzá con il calendario maya sullo sfondo


 Il conto lungo costituiva un prodotto culturale tipico dei Maya, che serviva per contare il tempo trascorso a partire dalla data mitica dell’origine del mondo, cioè 4 Ajaw 8 Kumk’ú. Da questo giorno, che possiamo considerare una sorta di anno zero, i Maya hanno iniziato a contare gli anni del conto lungo basandosi su cinque cicli principali:
-     K’in, l’unità base del computo del tempo, corrispondeva a un giorno, inteso come l’insieme di notte e dì. I Maya, infatti, concepivano il cammino del sole sotto un duplice aspetto: da una parte vi era un viaggio celeste, compiuto dall’astro nella volta del cielo durante le ore di luce, ma dall’altra vi era un viaggio nelle viscere del sottosuolo, che costituivano la partenza e il ritorno del disco solare nel suo percorso quotidiano. Questa duplice concezione del sole, corrispondente alla divisione della giornata, rispecchia anche l’opposizione tra la fase di fecondazione-generazione e quella di nascita. La generazione, che può essere quella quotidiana del seme di mais o quella mitica dell’uomo, avviene al buio (come per esempio la sepoltura del seme), atmosfera simbolo di morte, ma anche di fecondazione. La nascita segna invece il passaggio dalle tenebre alla luce. Dunque, la parte luminosa del giorno si collocava sotto la protezione delle tredici divinità del cielo, dette Oxlahutikú, mentre la parte buia era patrocinata dalle nove divinità del sottosuolo, i Bolontikú. Il glifo K’in può essere un ritratto del dio sole, posto di profilo, oppure un segno che somiglia a un fiore con quattro petali, simboli dei quattro punti cardinali o dei quattro punti di levata e tramonto del sole nei solstizi invernale ed estivo. Il numerale dei K’in si azzera a 20.
-     Winal, periodo dato dalla successione di 20 K’in, cioè 20 giorni. Come si è potuto notare, il 20 nella cultura maya era il numero fondamentale, poiché anche i calcoli venivano effettuati su base vigesimale, a differenza dei nostri che sfruttano la base decimale. Il glifo rappresentante lo Winal è una rana, ma questo periodo simboleggiava anche la luna, poiché in alcune varianti del glifo viene raffigurato proprio questo corpo celeste. Nel conto lungo, il ciclo degli Winal finisce a 18.
-     Tun, periodo che, come già accennato, si compone di 360 giorni, è un ciclo Haab senza il Wayeb, ovvero senza i cinque giorni infausti. Dal punto di vista del conto lungo, un Tun era composto da 18 Winal. Questo era l’unico ciclo calendariale che si discostava dalla base vigesimale per raccordare l’aritmetica all’anno solare. L’etimologia della parola Tun può avere significati diversi, che andavano da “pietra”, a “monumento” a “nocciolo di un frutto”. Quello più diffuso in Yucatan è il primo, poiché per Tun si intende una pietra preziosa, una giada. Il glifo del Tun, invece, contiene un segno che si associa con l’acqua, elemento che si connette anche alla giada, come si è già visto per il giorno di Muluk e per il mese di Mol. Nel conto lungo, il ciclo dei Tun si azzera una volta superato il 20.
-     K’atun, ciclo di 7.200 giorni, prende nome dall’unione di Kal, “venti”, e Tun; il significato corrisponderebbe dunque a “venti pietre”. Il K’atun era quindi composto da 20 Tun, un periodo di poco meno di 20 anni. Quando finiva un K’atun si tenevano delle cerimonie pubbliche in cui il reggente si trapassava la lingua o il pene e raccoglieva il sangue che ne sgorgava su una carta, che veniva bruciata in onore degli dèi. A conclusione del rito, veniva eretta una stele commemorativa. Il ciclo dei K’atun finisce a 20.
-     Bak’tun, il periodo di 144.000 giorni, corrisponde a 20 K’atun, quindi a circa 400 anni (per la precisione 394,3 anni). Letteralmente, il nome significa “quattrocento pietre”, ma il termine in lingua originale è sconosciuto. La definizione di Bak’tun è stata ricavata, come per i cicli più lunghi, dallo yucateco contemporaneo. Il numerale dei Bak’tun si azzera una volta superato il 13.

 Questi sono i cicli principali utilizzati nel conto lungo dei Maya, ma in realtà esisterebbero dei cicli ancora più lunghi, sempre costituiti seguendo la base vigesimale: il Pictun, composto da 20 Bak’tun, il Calabtun, formato da 20 Pictun, il Kinchiltun, che corrisponde a 20 Calabtun e infine l’Alautun, che vale 20 Kinchiltun.
 I numeri che designano un giorno nel conto lungo fanno però riferimento principalmente ai cinque cicli menzionati in precedenza. La data dell’origine del mondo può essere dunque scritta in questo modo: 0.0.0.0.0, 4 Ajaw 8 Kumk’ú, dove il primo zero a partire da sinistra corrisponde ai Bak’tun, il secondo ai K’atun, il terzo ai Tun, il quarto ai Winal e l’ultimo ai K’in.

 Le predizioni che vogliono che la fine del mondo avvenga il 21 dicembre 2012 si basano proprio sui cicli del conto lungo. Quel giorno, infatti, terminerà il tredicesimo Bak’tun (data che si può scrivere sia in questo modo 13.0.0.0.0, sia in questo 0.0.0.0.0), il ciclo che determina la fine di un’era.
 La nostra mente occidentale ricollega tutto questo a un’apocalisse, alla fine dell’universo che conosciamo. Tuttavia, se veramente vogliamo capire i Maya, non possiamo fermarci a considerare le cose da una prospettiva occidentale, ma dobbiamo imparare a porci da un altro punto di vista. Quella che la nostra mentalità interpreta come la fine del mondo, per i Maya è solo la fine di un’epoca, la fine di un ciclo al quale ne seguirà un altro. Non bisogna dimenticare, infatti, che per i Maya il tempo era ciclico e il suo corso si poteva rappresentare con una spirale; il tempo, in altre parole, non era una pura ripetizione di fatti già accaduti, ma un progresso verso la perfezione che continuava di era in era.
 Ne è una dimostrazione il racconto mitologico della creazione dell’uomo contenuto nel Popol Vuh. In questo mito, l’uomo viene creato in cinque fasi, ognuna delle quali dura 13 Bak’tun. Nelle prime fasi, la creazione dell’uomo si rivela una fallimento, che porta con sé altri tentativi di creazione fino alla definitiva riuscita. Ogni ciclo della creazione, dunque, non preannuncia una fine, ma un continuo progresso del tempo. E, se ricordiamo il concetto di fine secondo il pensiero maya, dovremmo ricordare anche che non si tratta di un epilogo definitivo, ma il punto di partenza di un nuovo inizio. Ciò che per noi dunque rappresenta una fine senza appello, per i Maya è un momento di passaggio da una condizione a un’altra.
 In conclusione, i Maya non hanno mai pensato che il mondo sarebbe finito il 21 dicembre 2012. Siamo noi gli artefici veri di questa profezia, prodotto dell’incomprensione tra culture diverse.


Fonti:
- ZAFFAGNINI, Gianni, I calendari maya - Oltre le paure della fine, Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL), 2011.

venerdì 7 dicembre 2012

I calendari maya - L'Haab

 Come ho scritto nel post precedente, oggi mi appresto a continuare a sviscerare l'argomento dei calendari maya. Se settimana scorsa avevo parlato del calendario rituale e religioso, ora illustrerò il funzionamento del calendario civile e solare chiamato Haab

Una rappresentazione del calendario Haab


 
Etimologicamente, il nome deriva da Ha, acqua, quindi un significato plausibile del termine potrebbe essere “ciò che produce o causa acqua”. Si presume che l’Haab fosse stato utilizzato per la prima volta intorno al 550 a. C., quando l’inizio dell’anno coincideva con il solstizio invernale. Se lo Tzolk’in era il calendario delle cerimonie religiose, l’Haab aveva un valore civile e scandiva il tempo dal punto di vista agricolo.
 L’Haab era composto da 365 giorni, come il nostro attuale calendario, ma suddivisi in modo diverso: 18 periodi di 20 giorni ciascuno, chiamati Winal (Winalob al plurale) costituivano i mesi, ciascuno dedicato a una divinità; i cinque giorni rimanenti si chiamavano Wayeb ed erano giorni infausti ma importantissimi, perché tesi alla preparazione delle cerimonie di fine e inizio anno.
 I venti giorni che componevano un mese erano numerati dallo 0 al 19. Questo perché il giorno 0 di ogni mese era considerato il giorno di insediamento del nuovo mese, mentre l’inizio effettivo del mese si aveva con il giorno 1. Dunque, per esempio, il giorno 0 Pop, il primo dell’anno, era considerato un giorno di transizione, mentre il mese Pop iniziava ufficialmente con il giorno 1 Pop. Si può paragonare questo concetto con la cerimonia dell’intronizzazione di un sovrano. Il giorno 0 è il momento in cui il re viene incoronato, ma il suo regno vero e proprio inizia dal giorno successivo. Allo stesso modo, ogni mese viene “incoronato” nel giorno 0, ma il suo corso inizia solo con il giorno 1.  
 Come i vari giorni dello Tzolk’in, tutti i mesi dell’Haab erano caratterizzati da una divinità protettrice e da cerimonie peculiari:
1.      Pop era il primo mese dell’anno, ed era all’insegna del rinnovamento, Per questo, tutti gli oggetti d’uso quotidiano venivano cambiati: si sostituivano abiti vecchi con abiti nuovi, mentre altri oggetti, come il vasellame o le stuoie, venivano proprio distrutti. Le divinità connesse con questo mese sono due: il dio giaguaro, rappresentato anche nel glifo del mese, che era inteso come il dio della terra (sia della superficie sia delle profondità del sottosuolo) e Mam, la divinità che simboleggiava l’anno e responsabile dei terremoti.
2.      Wo, il secondo mese, era caratterizzato da celebrazioni in onore degli dèi patroni dei sacerdoti. Nella mitologia, il nome di questo mese indicava le rane dei Chac, gli dèi della pioggia, che con il loro gracidio annunciavano imminenti precipitazioni. Il patrono del mese, però, era il giaguaro dell’inframondo.
3.      Sip, il terzo mese, etimologicamente significa “un tempo di cielo chiaro”. In questo periodo si svolgevano feste in onore di tre categorie di lavoratori: i cacciatori, i pescatori e i medici. Ognuno di questi gruppi svolgeva riti di purificazione che prevedevano che si dipingessero di azzurro degli strumenti tipici del proprio mestiere e che richiedevano sacrifici di sangue, mediante la pratica di fori o di taglietti nei lobi delle orecchie. Il patrono del mese era una divinità dalle sembianze serpentine, simile a Kukulkan.
4.      Sotz’, il quarto mese, è rappresentato da un glifo raffigurante un pipistrello. Effettivamente, nel Popol Vuh si parla di un enorme pipistrello, Camatzotz, che è connesso con la morte. Il patrono di Sotz’ è un pesce, chiamato Xoc.
5.      Sek, il quinto mese, aveva come dèi protettori i quattro Bacab, specialmente il Bacab rosso, corrispondente all’est, chiamato Hobnil Bacab. Le cerimonie di questo periodo erano dedicate al dio delle api, che fabbricavano il miele, sostanza che i Maya adoperavano per ottenere l’idromiele. Questo importante alcolico era usato sia per i suoi effetti curativi, sia perché era ritenuto magico.
6.      Xul, il sesto mese, significa letteralmente “piantatoio per il mais”, un attrezzo che si usava per seminare i chicchi di mais. Dunque, questo nome è connesso al concetto di fine e inizio. Xul infatti rappresentava la fine di un anno agricolo e l’inizio di quello nuovo, che si celebrava il giorno 16 Xul nella ricorrenza di Chic Kabanche, dedicata a Kukulkan. Il patrono del mese probabilmente era un dio canino appartenente all’inframondo, come quello raffigurato nel glifo corrispondente.
7.      Yaxk’in, settimo mese, deriva dall’unione di Yax, “verde”, “azzurro” e K’in, cioè “giorno” o “sole”. Il significato di questo periodo era connesso con il concetto di inizio e di fondazione. Il patrono del mese era il dio del sole, festeggiato forse in concomitanza con Kukulkan e il fuoco nuovo.
8.      Mol, ottavo mese, derivava da una parola yucateca che significava “raccogliere”, “raggruppare”, ed era rappresentato da un glifo con acqua e giada. In questo mese vi era una festa importante, dedicata a tutte le divinità, celebrata in due modi. Uno prevedeva che venissero dipinti di azzurro gli oggetti d’uso quotidiano, le porte degli edifici, le scritture sacre, le statue, ecc. e che i ragazzi e le ragazze fossero colpiti per nove volte sul palmo delle mani per diventare abili nel mestiere dei propri genitori. L’altra cerimonia prevedeva che degli scultori fabbricassero dei simulacri degli dèi da offrire alle varie divinità. Raffigurare gli dèi era un compito rischioso, perché se le divinità non fossero state soddisfatte del lavoro degli scultori, si sarebbero vendicate inviando a questi malattie o morte.
9.      Ch’en, nome del nono mese, significa “cenote”, delle cavità naturali contenenti acqua tipiche dello Yucatan, considerate dei pozzi sacri. Con Ch’en iniziano i quattro mesi i cui glifi rimandano alla pioggia e alla tormenta (gli altri sono Yax, Sak e Keh). Il patrono è rappresentato dalla luna.
10.  Yax, il cui significato è “primo, tenero verde”, è il decimo mese dell’Haab. È probabile che il patrono di questo mese fosse il dio del pianeta Venere. Proprio in questo periodo si celebrava la festività di Ocná, dedicata al rinnovamento dei templi di Chac, effettuato mediante la sostituzione degli idoli lignei e dei vasi di terracotta.
11.  Sak, undicesimo mese, con tutta probabilità aveva come patrono il dio del mese maya, detto Winal, che veniva raffigurato con una testa di un rettile o di una rana. Nel mese di Sak i cacciatori celebravano una solennità tesa a chiedere perdono agli dèi per il sangue degli animali versato durante la caccia. Ciò dimostra il profondo rispetto che i Maya nutrivano per gli animali, Se questo sentimento di rispetto veniva meno, lo spirito tutelare dell’animale cacciato non avrebbe più concesso il successo nella caccia al sacrilego. Inoltre, presso i Maya vi era una cerimonia di espiazione dopo l’uccisione dell’animale, che obbligava il cacciatore a versare il proprio sangue sulle ferite dell’animale.
12.  Keh, il dodicesimo mese, era l’ultimo dei quattro mesi che nel glifo possedevano il segno Kawak, associato con la tempesta. Il patrono di Keh era legato al dio del cielo, mentre il suo glifo rappresenta un cervo.
13.  Mak, il tredicesimo mese, significa “fine”, “chiudere”, “coprire” e forse è anche per questo che Thompson ritiene che Mak segni la fine del calendario Tzolk’in. Il patrono del mese è il dio del numero 3, probabilmente una rappresentazione del dio del mais. In questo periodo cadeva la solennità Tupp Kak, celebrata in onore di Itzamna e dei quattro Chac per ottenere delle piogge abbondanti.
14.  K’ank’in, nome che deriva da Kan, “giallo” e K’in, “sole”, “giorno”, è il quattordicesimo mese dell’Haab e fa riferimento al periodo di maturazione del mais. Questo mese è patrocinato da una divinità della terra.
15.  Muwan, il quindicesimo mese, aveva lo stesso nome di un uccello associato all’acqua, alle piogge e alle nubi, che altri non è che il patrono di Muwan. Questo mese era dedicato a Ek Chuah, divinità protettrice dei mercanti e del cacao (che veniva usato come moneta in tutta la Mesoamerica) e di Hobnil, il Bacab rosso.
16.  Pax, il sedicesimo mese, era patrocinato dal giaguaro o dal puma. Nei venti giorni di Pax si svolgeva la cerimonia di Pacum Chac, in onore del dio Cit Chac Coh, il “padre puma rosso”, in cui il Nacom (il capitano di guerra), era portato nel tempio del dio per assistere alla danza dei guerrieri. Successivamente si celebrava un rito propiziatorio alla vittoria in guerra, dove si offrivano i cuori degli animali a Cit Chac Coh, gettandoli nelle fiamme. Il tutto si concludeva con un banchetto finale in cui tutti, meno il Nacom, si ubriacavano. Dopo il Pacum Chac, i vari villaggi stabilivano la data delle celebrazioni festive degli ultimi tre mesi dell’anno.
17.  K’ayab, diciassettesimo mese dell’Haab, era raffigurato in un glifo rappresentante una testa di pappagallo. Nel Popol Vuh vi è una sorta di divinità pappagallo, Vucub K’aquix, che fingeva di essere il sole per ricevere i sacrifici da tutte le creature viventi. Costui fu però punito in seguito da Hunahpú e Ixbalanqué, i gemelli prodigiosi. Il mese è dedicato a una dea della luna crescente, patrona della medicina. K’ayab segnava l’inizio delle celebrazioni che si svolgevano negli ultimi quaranta giorni dell’anno, chiamate Sabacil Than. Nonostante conservassero le pratiche della purificazione, delle danze e dei banchetti, tali festività avevano un carattere privato, poiché si celebravano nella casa di chi le organizzava, ed erano quindi più contenute.
18.  Kumk’ú è l’ultimo mese di venti giorni, e la sua chiusura coincide con la fine del Tun, l’anno di 360 giorni. In questo mese proseguivano le feste del Sabacil Than e il patrono celebrato era il coccodrillo o un essere celeste. Inoltre, l’8 Kumk’ú era considerata la data mitica dell’inizio del calendario Haab.

Alcuni glifi rappresentanti i mesi dell'Haab




 L’ultimo periodo dell’Haab era chiamato Wayeb ed era composto da soli cinque giorni. Si ritiene che una probabile radice di Wayeb sia Way, cioè “minaccia”, “dramma”. Il significato complessivo però si lega a concetti come “letto da cui ci si alza” o “stanza dalla quale si esce”. Questi cinque giorni avevano una particolarità, segnalata anche dal loro appellativo Xma Baba Kin, ovvero “giorni senza nome”. I giorni del Wayeb non avevano un nome perché dovevano cancellare le influenze dei giorni precedenti dall’anno venturo, tanto che anche i giorni dello Tzolk’in che transitavano in questo periodo dell’anno perdevano il proprio carattere. Questa neutralità rendeva impossibile prevedere gli effetti del mondo trascendente sulla natura e sull’uomo e proprio per questo i cinque giorni del Wayeb erano considerati nefasti e pericolosi. Perciò, i Maya li passavano svolgendo meno attività possibili; stavano chiusi in casa, non si lavavano né pettinavano, digiunavano e si astenevano dai rapporti sessuali. Il Wayeb dunque era un abisso che divideva il tempo vecchio da quello nuovo e che segnava una rottura nel flusso ininterrotto del tempo.

 Tuttavia, ricalcando un pensiero tipicamente maya, questa sorte di “morte del tempo” era necessaria per la successiva rinascita. Questo è testimoniato dal fatto che già nei giorni del Wayeb si effettuavano sia le cerimonie di purificazione tipiche di questo periodo, sia i riti propiziatori per l’inizio del nuovo anno. Questi ultimi, variavano a seconda del giorno Tzolk’in che avrebbe segnato l’inizio dell’anno. In ogni caso, però, le celebrazioni consistevano in sacrifici di animali, auto sacrifici, banchetti e offerte di cibo agli dèi. Tutto ciò si compiva nella casa prescelta, in cui gli idoli dell’anno vecchio e dell’anno nuovo venivano posti uno di fronte all’altro. Una volta terminati i giorni del Wayeb, l’idolo della divinità protettrice del nuovo anno veniva condotto nel tempio, mentre l’idolo dell’anno vecchio veniva collocato all’ingresso della città. Gli idoli avrebbero conservato la propria posizione per i prossimi 365 giorni.
 A questo punto bisogna sottolineare che i giorni Tzolk’in con cui iniziava l’anno potevano essere solo quattro, che all’epoca della conquista spagnola erano: K’an, Muluk, Ix e Kawak. Questi giorni erano contrassegnati da un valore mitologico non indifferente e consentivano di prevedere la qualità dell’anno che stava per iniziare: gli anni K’an erano favorevoli, i Muluk molto favorevoli, mentre gli anni Ix erano negativi, anche se non quanto i Kawak, che erano considerati molto sfavorevoli.

 A prescindere dal tipo di anno, però, le degenerazioni erano sempre in agguato. Se in un anno le calamità si facevano particolarmente insistenti, si pregavano delle determinate divinità ausiliarie, affinché accorressero in aiuto della comunità. Naturalmente, ogni anno aveva delle specifiche divinità ausiliarie e dei riti relativi, anche cruenti, a seconda del problema che affliggevano gli uomini. I riti di fine anno erano importanti soprattutto per le donne, poiché erano le uniche celebrazioni alle quali potevano assistere e addirittura partecipare con delle danze a loro riservate.

 La denominazione completa dei giorni dell'anno era ottenuta dalla combinazione della data Tzolk'in e dalla data Haab, che si incastrano tra di loro come due ruote di un ingranaggio aventi raggio differente: lo Tzolk'in, di 260 giorni, corrisponderà quindi alla ruota con raggio minore, mentre l'Haab, con la sua durata di 365 giorni, sarà la ruota di raggio maggiore.

La rappresentazione dei calendari Tzolk'in e Haab secondo Morley

 Insomma, il calendario per i Maya era una cosa molto seria, che si legava inscindibilmente alla forze trascendenti dell'universo. Al giorno d'oggi noi riduciamo tutto ciò all'astrologia, a delle sedicenti predizioni catastrofiche sulla fine del mondo elaborate in modo poco attendibile. Ma qui non si tratta solo di astrologia. Questa è religione, devozione vera, non superstizione. È il riconoscimento che non possiamo fare tutto da soli, ma che esiste qualcosa di più importante e di più potente rispetto a quello che l'uomo può costruire. È quello che serve alla nostra epoca: l'umiltà. 



Fonti:
- ZAFFAGNINI, Gianni, I calendari maya - Oltre le paure della fine, Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL), 2011.



mercoledì 28 novembre 2012

I calendari maya - Lo Tzolk'in

 Dicembre si avvicina, e così anche il giorno della terribile profezia maya che, secondo i giornalisti e gli inesperti, vorrebbe che il mondo finisse il 21 dicembre 2012.  In realtà non è così, perché per i maya questa data rappresenta la fine di un'era, che comporterà sì dei cambiamenti, ma non certo la fine del mondo! Per loro la fine conteneva già i germi di un inizio, quindi presupponeva una rinascita, un evento positivo. Quindi non c'è da preoccuparsi!
 In compenso, vorrei approfondire il discorso sul computo del tempo e sui calendari maya. Scrivo i calendari, al plurale, perché i Maya amavano talmente tanto calcolare e misurare il tempo che un unico calendario non gli bastava. Quindi i prossimi post saranno dedicati interamente ai calendari usati dagli antichi Maya, a scopo di capire veramente la loro filosofia del tempo e perché non bisogna temere il 21 dicembre 2012.

Una raffigurazione del calendario solare maya

 Il primo calendario di cui parlerò oggi è lo Tzolk'in. Lo Tzolk’in, il calendario più antico della Mesoamerica (probabilmente di origine olmeca), era il ciclo rituale, che serviva per le funzioni religiose. Il suo nome deriva da Tzol, “conto”, “ordine dei giorni” e K’in, ossia “giorno”, e quindi significa letteralmente “conto dei giorni”. In tutto, lo Tzolk’in era composto da 260 giorni e si basava su altri due cicli, più brevi: uno composto da cifre da 1 a 13 e un altro composto da 20 giorni. Dunque i nomi dei giorni dello Tzolk’in si componevano premettendo un numero dall’1 al 13 al nome di uno dei 20 giorni. A ognuno dei 20 giorni corrispondeva un glifo, legato alla divinità che patrocinava quella determinata giornata. Questi 20 giorni erano:
1. Imix, il primo giorno del calendario rituale, era dedicato a una divinità femminile, probabilmente una dea madre della fertilità.
2.  Ik’, il secondo giorno, significa “vento”, ed era connesso con la pioggia fertilizzante che permetteva la nascita del mais, ma anche con il dio del vento Kukulkan, inteso come soffio vitale, spirito e voce.
3.  Ak’bal, il terzo giorno, era associato alla notte e a esseri legati a questo momento della giornata, come il dio giaguaro, che rappresentava il cammino notturno del sole, e il serpente.
4.  K’an, il quarto giorno, etimologicamente significa “corda”, ma nel glifo di questo giorno compare un chicco di mais. Questo perché il glifo indicava anche Yum Kax, il giovane dio del mais, simbolo di abbondanza.
5. Chikchan, quinto giorno, rappresentava il serpente piumato e il pianeta Venere, concepito come stella del mattino.
6.    Kimi, il sesto giorno, era patrocinato dal dio della morte Yum Cimil ed era associato anche all’uccello Muan e altri volatili malauguranti.
7. Manik’, il settimo giorno, simboleggiava il cervo, poiché la divinità che presiedeva a questo giorno, Buluk Chabtan, era il dio protettore della caccia e del sacrificio umano, che si presentava proprio sotto forma di cervo. Nel Popol Vuh, il testo mitologico più importante della tradizione maya, tale divinità corrisponde a Tohil, connesso con la caccia, la concia delle pelli e ai sacrifici di sangue.    
8.    Lamat, l’ottavo giorno, nel glifo presenta una stella, forse Venere. La sua simbologia era connessa al coniglio e a Venere, ma non si conosce con precisione la divinità a esso associata.
9.  Muluk, il nono giorno, significa “giada”, pietra simbolo dell’acqua e connessa con una figura mitologica, Ah Xoc. Ma il patrono di questo giorno è Kinik Ajaw, “faccia di sole”.
10. Ok, il decimo giorno, si collocava alla metà di uno Winal, una ventina, che era un completamento di un ciclo di 20 giorni. Il nome significa “cane”, ed era dedicato a una divinità infera che accompagnava i morti nell’aldilà dei Maya, chiamato Xibalbá.

Alcuni glifi rappresentanti i giorni dello Tzolk'in
11. Chuwen, l’undicesimo giorno, significa “scimmia”, animale che rappresentava Ah Chicum Ek, la dea della stella polare che proteggeva gli scribi e gli artisti. Si trattava di una divinità doppia, raffigurata anche come una coppia di gemelli che dipingevano, intagliavano, scrivevano o si dedicavano ad altre attività artigianali.
12. Eb, dodicesimo giorno, era ritratto come un teschio, simbolo della pioggia. Eb era dedicato a una divinità nefasta, probabilmente Ixchel.
13. Ben, il tredicesimo giorno, era collegato al dio del mais che protegge la pianta nella prima fase di crescita.
14. Ix, quattordicesimo giorno, deriva da un termine arcaico che indica il giaguaro.
15. Men, il quindicesimo giorno, era raffigurato come una testa di aquila o di un altro uccello rapace ed era associato alla fase decrescente della luna. Forse era anche collegato alla dea dell’arcobaleno, Ixchel.
16. Kib, sedicesimo giorno, ha un nome che potrebbe significare “gufo”, ma era dedicato al dio delle api, che garantiva una produzione abbondante di miele.
17. Kaban, diciassettesimo giorno del calendario, corrispondeva alla testa di una giovane dea della terra, associata anche alla fase crescente della luna, al coniglio, alla fecondità e al mais.
18. Etz’nab, il diciottesimo giorno, significa “coltello di ossidiana”, l’arnese che si usava nei sacrifici umani e negli autosacrifici.
19. Kawak, diciannovesimo giorno del calendario, era rappresentato da nuvole poiché il nome significa “pioggia” o “tempesta”. Probabilmente la divinità che patrocinava questo giorno portava piogge e temporali distruttori, opposti alle piogge fertilizzanti.
  20. Ajaw, l’ultimo giorno del calendario rituale, rappresentava il volto del signore del sole. L’etimologia del nome rimanda a “re”, “signore”, titolo che veniva usato anche per rivolgersi ai sovrani, ai sacerdoti e alle divinità. Questo giorno era dedicato a Itzamna e a una divinità solare, Kinik Ajaw, ovvero un’altra forma di Itzamna.


 In teoria il computo dei giorni dovrebbe partire da 1 Imix, ma secondo il conteggio mitico il primo giorno dello Tzolk’in, cioè il giorno in cui tutto ebbe inizio, è 4 Ajaw. Da quest’ultima data parte anche il computo delle ere maya, quello che viene chiamato il “conto lungo”. 1 Imix, invece, è il giorno di partenza del calcolo delle ventine, chiamate Winal.
 Ogni giorno che passa entrambi i cicli avanzano di uno: avremo dunque 1 Imix, 2 Ik’, 3 Ak’bal, ecc., fino ad arrivare a 13 Ben. Da questo punto in poi la numerazione riparte da capo, ma non accade lo stesso per il nome dei giorni; si proseguirà dunque con 1 Ix, 2 Men, 3 Kib fino a 7 Ajaw. Dopo i nomi dei giorni ricominceranno da 8 Imix, mentre la numerazione continuerà, e così via. In questo modo, ogni giorno assume tutte le volte che si presenta un numero diverso da 1 a 13 secondo una sequenza sempre uguale: 1 – 8 – 2 – 9 – 3 – 10 – 4 – 11 – 5 – 12 – 6 – 13 – 7 – 1 – 8 ecc.
 Di conseguenza, il lasso di tempo che passerà tra due giorni che presentano lo stesso numero e lo stesso nome sarà equivalente al minimo comune multiplo tra 13 e 20, cioè 260 giorni, ovvero un intero ciclo Tzolk’in. 
 Questo calendario era importante anche per registrare le date di nascita delle persone della comunità, annotate proprio secondo lo Tzolk’in. A seconda del giorno in cui un individuo nasceva, si poteva capire quale sarebbe stato il suo destino. Dunque i Maya credevano che le caratteristiche di quel dato giorno e della corrispondente divinità protettrice influissero sulla vita dell’individuo, un po’ come il nostro oroscopo basato sui 12 segni zodiacali.

 Già da queste informazioni si può capire quanto i Maya tenessero in considerazione la misurazione del tempo, che diventava una vera e propria divinità, con aspetti multiformi. Per loro i calendari erano una cosa maledettamente seria, anche perché avevano una concezione ciclica del tempo. Finito un lasso di tempo, la storia ricominciava da capo, e gli eventi si ripetevano sempre uguali. Quindi era importante sapere cosa era successo nel passato per affrontare il presente e il futuro.
 Non c'è dubbio che in tutto ciò si nascondesse una grande saggezza e una forte volontà di imparare dal passato maggiore rispetto ad altre civiltà. Anziché preoccuparci della fine del mondo e dare retta ai falsi allarmismi, forse dovremmo prendere d'esempio i Maya per altri motivi. 



Fonti:
- ZAFFAGNINI, Gianni, I calendari maya - Oltre le paure della fine, Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL), 2011.

mercoledì 14 novembre 2012

Alle radici dell'albero cosmico - L'albero come asse del mondo nella tradizione europea

  Uno degli elementi più presenti nei miti e nel folklore delle popolazioni antiche è l’albero. Questo elemento naturale assume una grande varietà di funzioni, ma una più di tutte le altre rende evidente l’importanza che l’albero ha sempre rivestito nell’antichità: quella di centro e asse dell’universo.

 Di per sé, l’albero non è propriamente un motivo cosmologico, perché è innanzi tutto un elemento naturale che, per le sue caratteristiche, ha assunto una funzione simbolica. L’albero, in quanto tale, si rigenera sempre con il passare delle stagioni: perde le foglie, secca, sembra morire, ma poi ogni volta rinasce e recupera il suo splendore. Per queste sue caratteristiche, esso diventa non solo un elemento sacro, ma addirittura un microcosmo, perché nel suo processo di evoluzione rappresenta e ripete la creazione dell’universo. Inoltre, proprio per la sua estensione sia verso il basso sia verso l’alto, questo elemento ha finito inevitabilmente per assumere una valenza cosmologica, andando a costituire il perno dell’universo che attraversa cielo, terra e oltretomba e che funge da collegamento tra le zone cosmiche.
 Per questo, sono molte le popolazioni che nella propria cosmologia concepiscono l’esistenza di un albero sacro come asse del mondo. Tra queste, le popolazioni antiche europee testimoniano, nella religione e nella mitologia, una presenza massiccia di questo motivo. 

La Bibbia
 Un primo esempio lampante ci viene dalla Bibbia, dove si parla dell’albero della conoscenza del bene e del male posto al centro dell’Eden. È importante sottolineare che l’albero, in questo caso e negli altri che verranno esposti, si fa portatore anche della simbologia del centro, il luogo sacro per eccellenza, poiché è l’inizio e la fine di tutte le cose e sede dell’ordine cosmico. È proprio il centro il luogo di intersezione delle tre sfere cosmiche (cielo, terra e oltretomba), dove è possibile passare da una regione all’altra dell’universo. Per questo, solo pochi eletti riescono ad accedere a questo punto particolare, e non senza aver superato molte prove e difficoltà. Uno di questi ostacoli può essere rappresentato proprio dal custode dell’albero, che nella Genesi è il serpente tentatore di Adamo ed Eva. L’albero della conoscenza giocherà un ruolo centrale anche nelle vicende che riguardano la morte del Cristo: esiste infatti una leggenda cristiana che vuole che il legno della croce di Gesù coincida con quello dell’albero edenico. E, guarda caso, questa stessa leggenda fa corrispondere il punto della crocifissione del Cristo con il centro del mondo, dov’era stato creato e sepolto Adamo. Dunque la croce di Cristo, instaurando una continuità con l’albero edenico, si configura per i cristiani come sostegno dell’universo e incorpora così il motivo dell’albero come asse del mondo che collega il cielo, la terra e l’aldilà.

Adamo ed Eva colgono il frutto proibito dell'albero


La tradizione celtica
 Sempre rimanendo in ambito europeo, ci sono molti altri esempi di culture che, pur non essendo cristiane, presentano il concetto di albero cosmico nel proprio folklore. Nell’area celtica troviamo due specie arboree che assumono questo ruolo: la quercia e il frassino. In Gallia, la quercia è considerata la regina della foresta, perfetta, forte dei suoi imponenti rami e salda nelle sue ancor più grandi radici, per questo simboleggia la salda protezione e la forza primordiale, nonché l’abilità di sopravvivere. Tali attributi associati alla quercia non derivano però dalle sue caratteristiche naturali, ma da Giove, divinità a cui quest’albero è strettamente legato. La quercia, infatti, si presta bene a rappresentare la maestosità e la forza del dio romano supremo, il cui culto era diffuso anche tra i Celti gallici. Anche il frassino, chiamato Necht, rappresenta il motivo dell’albero cosmico, poiché possiede radici che penetrano molto in profondità nel terreno e rami spessi e forti. Per questa sua immagine di molteplicità e robustezza, nella mitologia celtica e norvegese il frassino è ritenuto lo specchio del mondo e dell’universo, poiché in quanto asse del mondo la sua estensione abbraccia gli inferi, la terra e il cielo. Esso è dunque un microcosmo, poiché riproduce in scala ridotta la struttura di tutto l’universo.

Yggdrasill, l'albero cosmico dei Germani
 Parlando del frassino, non si può non menzionare Yggdrasill, l’albero cosmico che sostiene tutti e nove i mondi dell’universo germanico che veicola una complessa simbologia. Yggdrasill ha tre radici, ma sulla loro collocazione vi sono tradizioni discordanti. Secondo il poema Grímnismál, contenuto nell’Edda poetica, la prima radice finisce nel regno di Hel, l’oltretomba, la seconda a Jötunheimr, dove dimorano i giganti della brina, e la terza a Midgardr, il mondo degli umani. Il Gylfaginning dell’Edda in prosa, invece, afferma che la prima radice va a Niflheimr, la regione infera dove si trova la sorgente Hvergelmir, la seconda a Jötunheimr (come dice anche il Grímnismál) e la terza ad Asgardr, presso la dimora celeste degli dèi Asi. In ogni caso, le tre radici non indicano tre zone terrestri, ma tre differenti modi di essere che si esplicano nei regni cosmici degli inferi, della terra e del cielo. Un’altra particolarità di Yggdrasill è la presenza minacciosa di un’abbondante fauna: lo scoiattolo Ratatoskr sale e scende lungo il tronco, sui rami sta appollaiata un’aquila che con il suo battito d’ali origina i venti, cinque cervi e una capra brucano le sue chiome e otto rettili, simili a draghi, rodono le sue radici. Tra questi, gli animali più rilevanti sembrano l’aquila e il più terribile dei rettili, Nidhöggr, che si scambiano vicendevolmente degli insulti attraverso lo scoiattolo Ratatoskr, che funge da messaggero. È proprio questo roditore il mezzo attraverso cui si sviluppa il conflitto tra cielo e terra, simboleggiato dagli screzi tra l’aquila e il rettile. Tutti questi animali mostrano la fragilità di quest’albero, che non è immune alla progressiva erosione della fauna e soprattutto del tempo. Quando Yggdrasill verrà abbattuto, il mondo attuale avrà fine, tutto ciò che esiste verrà distrutto per stabilire un nuovo equilibrio e un nuovo universo.

Yggdrasill, il perno dell'universo nordico


Il folklore slavo
 Se tra i Germani e i Celti è il frassino l’albero più importante, tra le popolazioni slave sono il larice e la betulla a fungere da assi del mondo. Queste due specie arboree riprendono il motivo di matrice uralo-altaica dell’albero cosmico che, crescendo al centro dell’universo, congiunge i tre livelli del mondo con le sue radici che scendono nelle viscere della terra e i suoi rami che toccano le nuvole. L'immagine appartiene a una comune concezione sciamanica presente dalle zone orientali d’Europa fino alla Siberia. L'albero cosmico è non solo l'asse che unisce cielo, terra e inferi, ma anche il tramite attraverso il quale lo sciamano è in grado di uscire dal nostro mondo per salire o scendere attraverso i molteplici livelli dell'essere. Per le popolazioni siberiane, il larice è l’albero cosmico lungo il quale scendono il sole e la luna sotto forma di uccelli d’oro e d’argento. Tale ruolo, però, come si è detto prima, può essere rivestito anche dalla betulla, che viene incisa con sette, nove o dodici tacche che rappresentano i livelli celesti. Questa può essere anche connessa talvolta al sole e alla luna; in questo caso assume la duplice funzione di padre e madre, maschile e femminile e anche quella di strumento della discesa dell’influsso celeste. 

La quercia del Kalevala
 La fonte della concezione slava dell’albero cosmico molto probabilmente deriva dalle popolazioni ugro-finniche, che in passato si sono insediate nella Scandinavia e in Russia. Nella mitologia di queste popolazioni, però, l’albero cosmico non è né un larice né una betulla, ma una quercia, che compare nel Kalevala, un poema epico finlandese composto da Elias Lönnrot a metà del XIX secolo. Nel secondo runo, in particolare, si parla di una quercia gigante che si estende in tutto il mondo, fino a coprire la luce del sole. Proprio per questo motivo, il saggio Väinämöinen ordina a un piccolo omino di rame venuto dal mare di abbattere la quercia, affinché il sole possa ancora scaldare la terra. L’abbattimento della quercia simboleggia la rottura dell'asse terrestre, la quale va probabilmente collegata con il fenomeno della precessione degli equinozi, quando il mondo passa da un’era alla successiva e un nuovo signore del tempo dovrà cedere il posto al vecchio.

Väinämöinen semina la terra per farne uscire i germogli, tra cui la quercia


 Com’è possibile notare, in Europa l’albero cosmico è un motivo che ricorre in culture anche molto diverse tra loro. Del resto, la relazione di questo elemento naturale con il trascendente non poteva essere trascurata; l’albero rappresenta la fertilità, l’abbondanza e il ciclo della natura che si rinnova miracolosamente ogni anno. Ecco perché una semplice pianta riesce a contenere l’infinità dell’universo.



Fonti:

- BROSSE, Jacques, Storie e leggende degli alberi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1989;
- CHEVALIER, Jean, GHEERBRANT, Alain, Dizionario dei simboli: miti, sogni, costumi, gesti, forme, figure, colori, numeri, Rizzoli, Milano, 1986;
- ELIADE, Mircea, Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book, Milano, 1981;
-  ELIADE, Mircea, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2008;
-  GREEN, Miranda Jane, Dizionario di mitologia celtica, Bompiani, Milano, 2003;
-  GUÉNON, René, Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano, 1990;
-  LECOUTEUX, Claude, Dizionario di mitologia germanica, Argo, Lecce, 2007;
- WARNER, Elizabeth, Dèi, eroi e mostri della mitologia russa, Mondadori, Milano, 1985;

- Celticpedia, “Il bosco sacro celtico”;
- Bifrost, La quercia gigante”;