mercoledì 26 settembre 2012

La leggendaria Lady Godiva


I'm a shooting star leaping through the sky
Like a tiger defying the laws of gravity
I'm a racing car passing by like Lady Godiva
I'm gonna go go go
There's no stopping me

 Così cantava il compianto Freddy Mercury nella canzone Don't stop me now. Ma non ho intenzione di parlare del leader dei Queen, anche se rimane comunque la voce maschile che preferisco in assoluto. Diciamo che ho preso in prestito questa canzone per introdurre la figura che vorrei presentare oggi: Lady Godiva.

 Si tratta di un personaggio storico realmente vissuto nell'XI secolo a Coventry che, con il marito Leofric, si distinse come benefattrice di diversi conventi della zona. Non per niente, il nome originario anglosassone Godgifu o Godgyfu, latinizzato poi in Godiva,  significa letteralmente "regalo di Dio".

 Ma Lady Godiva non si dimostrò tale solo per le sue generose donazioni ai conventi. Secondo la leggenda, la nobildonna si rivelò un dono anche per la popolazione di Coventry. La versione originale della storia si trova nella parte del Flores Historiarum composta da Roger di Wendover (XIII secolo) e si riferisce all'anno 1057.

 Allora la cittadina di Coventry era cresciuta grazie alla fondazione di un priorato benedettino da parte del conte Leofric. Ma a Leofric non bastava la condizione di prosperità della sua città; voleva che Coventry diventasse ancora più importante, addirittura che soppiantasse Londra.
 Così, il conte si mise all'opera per abbellire il proprio paese. Purtroppo, però, ben presto si dovette rendere conto che i soldi che le casse di Coventry possedevano non erano sufficienti per raggiungere il livello di splendore che si era proposto. Perciò, Leofric impose ai propri sudditi delle pesanti tasse, minacciando di punire chiunque si fosse rifiutato di pagare. Il popolo di Coventry era in ginocchio e pregava continuamente perché il cielo venisse in suo aiuto.
 Lady Godiva, la giovane e bellissima moglie del conte Leofric, non rimase insensibile alla sofferenza della gente. Al pensiero di quei poveretti, il suo viso si rigava di lacrime. 
 Un giorno Leofric, vedendola triste, le chiese la causa del suo malessere. La giovane donna supplicò il marito di abolire le ingenti tasse, perché non riusciva più a sopportare la misera condizione del suo popolo. 
 "Moglie mia, sai bene che i soldi delle tasse serviranno a rendere Coventry una città ricca e gloriosa" fu la risposta di Leofric, che poi continuò "Inoltre ho bisogno di denaro per comprarti tutte quelle splendide vesti che rendono giustizia alla tua bellezza."
Lady Godiva smise di piangere e guardò fissa il marito.
 "Cosa intendi dire?"
 "Senza vestiti e senza gioielli la tua bellezza non sarebbe così splendente. Se tu non ne avessi nessuno capirebbe che tu sei una dama di alto lignaggio, se passassi in città. Anche per questo mi vedo costretto ad aumentare le tasse." 
 Lady Godiva tacque, pensosa. Poi ebbe un'illuminazione e disse:
 "Significa che se io attraversassi la città senza vestiti tu aboliresti le tasse?"
 Leofric titubò alle parole della moglie. "Credo che potrei farlo, sì..."
 "Ascoltami bene, allora: l'indomani stesso io attraverserò Coventry a cavallo coperta dei miei soli capelli. Non mi importa avere vesti sfarzose o gioielli preziosi, ma il bene del mio popolo." 
 E Lady Godiva mantenne la promessa. Cavalcò nuda per le vie della città senza che nessuno si affacciasse alla finestra per guardarla. I lunghi capelli le scendevano sul corpo come unico ornamento e due cavalieri (forse donne), l'accompagnavano nel suo pellegrinaggio.
 Durante il percorso, un sorriso solcava il suo bel viso: sapeva di aver vinto e che il suo popolo avrebbe smesso di soffrire. Infatti, Leofric abolì le tasse e non vessò mai più il popolo di Coventry.

Lady Godiva cavalca per le strade di Coventry

 Con gli anni, a questa versione se ne affiancarono molte altre, che aggiungevano sempre nuovi particolari. Alcune dicono che Leofric avesse espressamente vietato alla popolazione di affacciarsi al passaggio della giovane moglie. Altre per "nudità" intendono la mancanza di gioielli come ornamento di Lady Godiva, che erano il segno distintivo della nobiltà. Infine, nel XVII secolo si aggiunse l'episodio relativo a Peeping Tom, un sarto che disobbedì a Leofric e che fece un foro in una persiana per ammirare la bellezza naturale di Lady Godiva. Peeping Tom rimase tanto impressionato dall'avvenenza della donna che divenne cieco. Tuttora, nella lingua inglese, l'espressione Peeping Tom viene utilizzata per riferirsi a un guardone. 

 Anche ora ci servirebbero figure come Lady Godiva. Nonostante la sua cavalcata non sia stata accertata dal punto di vista storico, tutti noi, come il popolo di Coventry, aspettiamo questo "regalo di Dio": una persona che, più che alle sue ricchezze, badi al benessere del proprio popolo.



Fonti:
- Wikipedia, voce "Lady Godiva";
- Sito internet Le pagine di Pinu, "La leggenda di Lady Godiva";
- DALLERA, Francesco, "Lady Godiva".

venerdì 21 settembre 2012

La Fenice, simbolo d'immortalità

 Ci sono idee che sono nate nella mente dell'uomo fin dai primi tempi e che non sono più scomparse. Sembrano quasi dei chiodi fissi, che si sono inculcati in tutte le culture e mitologie del mondo e che sopravvivono tutt'ora, anche se in altre forme.
 Un concetto che ritorna insistentemente in tutte le popolazioni antiche è quello di rigenerazione. Questa idea si è concretizzata in diversi modi: attraverso i riti propiziatori che favorivano la ciclicità dei fenomeni naturali, o rituali di passaggio che purificassero il defunto perché potesse rinascere nell'al di là, o ancora concezioni cicliche del tempo, che era destinato inesorabilmente a ripercorrere i propri passi.

 Per rappresentare il concetto di rigenerazione, però, i popoli antichi ricorrevano anche a delle creature immaginarie, che si configuravano come veri e propri simboli del pensiero degli uomini. Una di queste è la Fenice, l'uccello mitologico che dopo la morte rinasce dalle proprie ceneri.  

 I primi a parlare di questo favoloso pennuto furono gli Egizi, che nel loro pantheon annoveravano il Benu o Bennu (letteralmente "brillare", "Splendere" o "librarsi in volo"), che dapprima aveva le sembianze di un passeraceo e poi divenne un trampoliere dal becco lungo e sottile, con due piume dietro il capo. Tale uccello venne associato al sole e alla divinità solare Ra, quindi rappresentava il cammino dell'astro nel cielo, che sorgeva e tramontava. Il Bennu era identificato inoltre con il pianeta Venere, chiamato la Stella del Mattino, come dimostra questa invocazione:

«Io sono il Bennu, l'anima di Ra, la guida degli Dèi nel Duat. Che mi sia concesso entrare come un falco, ch'io possa procedere come il Bennu, la Stella del Mattino.»

Bennu, la "Fenice" egiziana
 A causa del suo aspetto simile a un airone, il Bennu era una figura che annunciava il ritorno di un periodo fertile e prospero. L'airone, infatti, era solito comparire sulla sommità delle rocce del fiume Nilo dopo la periodica inondazione che fecondava la terra con il limo. La connessione con la fertilità e con le forze vitali è dimostrata anche dal fatto che il Bennu divenne una rappresentazione di Osiride, il dio che muore e risorge.
 Un mito egizio della creazione narra, addirittura, che il Bennu fosse il primo essere animato a sorgere sulla collina emersa dal caos delle acque primordiali. Secondo la leggenda, il Bennu sarebbe nato dal fuoco che ardeva sul sacro salice di Eliopoli.
 Di Bennu ne poteva esistere solo uno alla volta, proprio come il sole. Era sempre di sesso maschile e viveva in prossimità di una sorgente d'acqua fresca, in un'oasi dell'Arabia (da qui l'epiteto "araba fenice") che era pressoché introvabile. Lì, ogni mattina faceva il bagno nell'acqua della fonte e intonava una melodia talmente soave che il sole fermava il suo corso per ascoltarla. Talvolta lo si poteva veder volare a Eliopoli per depositarsi sul salice sacro o sull'obelisco all'interno della città.

 Dall'Egitto, la leggenda si diffuse in Grecia grazie a Esiodo ma soprattutto a Erodoto, il primo che descrisse in modo preciso l'aspetto della Fenice e le sue caratteristiche. Secondo lo storico greco l'uccello era più o meno della grandezza di un'aquila e il suo piumaggio era in parte oro brillante e in parte rosso cremisi. Nonostante l'aspetto dell'animale sia profondamente cambiato rispetto alla tradizione precedente, Erodoto si riallaccia comunque al culto egiziano, affermando che la Fenice giungeva dall'Arabia a Eliopoli ogni cinquecento anni, in occasione della morte del genitore, le cui salme erano state imbalsamate in un uovo di mirra. La nuova Fenice portava con sé l'uovo per depositarlo e bruciarlo sull'altare del dio del sole.  
 Sempre Erodoto ci svela che, prima di morire, la Fenice si ritirava in un luogo appartato e costruiva un nido di incenso e cannella sopra una quercia o una palma, accatastando le piante aromatiche in modo da formare un uovo. Dopodiché, adagiatasi nel giaciglio, lasciava che i raggi del sole incendiassero il nido e si lasciava consumare dalle fiamme. Incendiandosi, le piante aromatiche diffondevano un dolce profumo, che accompagnava sempre la morte della Fenice. Dalle ceneri, poi, spuntava una larva o un uovo, che i raggi del sole contribuivano a trasformare in una Fenice adulta in tre giorni attraverso il loro calore. In seguito, come già accennato, la nuova creatura si dirigeva verso Eliopoli e si posava sull'albero sacro.


La Fenice greco-romana

  
 Ovviamente questa figura non poteva non essere citata anche da scrittori romani, che dibatterono molto su alcune caratteristiche della Fenice (il cibo di cui si nutrisse, sulla modalità della sua morte), ma mantenendo in generale inalterati i tratti fondamentali fissati da Erodoto. Per esempio Ovidio, nelle sue Metamorfosi, scrive:


si ciba non di frutta o di fiori, ma di incenso e resine odorose. Dopo aver vissuto cinquecento anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci s'abbandona sopra, morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi. Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice, destinata a vivere tanto a lungo quanto il suo predecessore. Una volta cresciuta e divenuta abbastanza forte, solleva dall'albero il nido (la sua propria culla, ed il sepolcro del genitore), e lo porta alla città di Eliopoli in Egitto, dove lo deposita nel tempio del Sole.

 Ovidio, quindi, rimane fedele alla storia tramandata da Erodoto, aggiungendo però alcuni particolari: il nutrimento della Fenice e il fatto di trasportare a Eliopoli non solo le salme del genitore, ma anche il proprio nido. Sempre per quanto riguarda la morte del genitore, anche Tacito riprese le informazioni di partenza, dicendo che la nuova Fenice portasse l'intero corpo del genitore morto a Eliopoli per bruciarlo all'altare del sole.
 E' bene evidenziare che il continuo riferimento a Eliopoli non era casuale. Lì, i sacerdoti di Ra erano soliti conservare i testi dei tempi passati in archivi. Se si tiene presente questo dato importante, la Fenice diveniva così il nuovo profeta, il nuovo messia che distruggeva gli antichi testi sacri per far rinascere una nuova religione dalle ceneri di quella precedente.
 Durante l'impero romano, la Fenice smise i panni del sole che tramontava e risorgeva ogni giorno e assurse a simbolo dello stesso impero che, pur alterandosi, si rinnovava sempre ed era immortale.

 Ma l'idea di rinnovamento e rigenerazione legata alla Fenice non poteva restare confinata solo al mondo classico. Infatti, il favoloso uccello era presente già nella tradizione ebraica, dove assunse il nome di Milcham. Una leggenda narra che Eva, divenuta mortale dopo aver mangiato il frutto proibito, costrinse anche tutti gli altri animali dell'Eden a fare altrettato, poiché era invidiosa della loro purezza e immortalità. L'unico animale che si rifiutò di mangiare il frutto proibito fu proprio la Fenice. Per questo, Dio volle ricompensarla dandole come dimora una fortificazione nel paradiso terrestre, dove l'uccello leggendario avrebbe potuto vivere in pace per mille anni. Proprio con una frequenza di mille anni, la Fenice bruciava e si rigenerava da un uovo, che veniva ritrovato tra le ceneri dell'animale defunto.

 La religione cristiana riprenderà in seguito la simbologia di questo animale, che ben si addiceva alla figura di Gesù Cristo che, proprio come la Fenice, muore per poi risorgere. In questo contesto la Fenice non è solamente simbolo di Cristo vittorioso sulla morte, ma più in generale anche della rinascita spirituale dell'anima, che è immortale.
 Ben presto, quindi, la Fenice divenne parte dei bestiari dell'epoca medievale. Uno di questi, chiamato Fisiologo, riportava le caratteristiche dell'animale, che erano state in parte modificate. Secondo il bestiario, la Fenice era originaria dell'India  e ogni cinquecento anni si dirigeva verso il Libano, dove si profumava le ali con piante aromatiche e si annunciava al sacerdote di Eliopoli. Costui, ricevuto il segnale, preparava sull'altare una pira di sarmenti di legno dove l'uccello si sarebbe posato e avrebbe preso fuoco. Dopo la morte sul rogo, il sacerdote trovava un piccolo vermicello, che in tre giorni si sarebbe trasformato nella nuova Fenice. Il Fisiologo stesso spiega la simbologia di questo essere prodigioso:

l'uccello prende l'aspetto del nostro Salvatore, che scendendo dal cielo, riempì le sue ali dei dolcissimi odori del Nuovo e dell'Antico Testamento, come egli stesso disse: «Non sono venuto ad eliminare la legge, ma ad adempierla». 

La Fenice in un mosaico cristiano


 Creature molto simili alla Fenice europea ed egiziana si possono trovare anche negli altri continenti. Nella mitologia cinese, l'uccello leggendario compare tra le quattro creature sacre che presiedono al destino della Cina, le quali impersonano le forze primordiali di tutti i tipi di animali (piumati, corazzati, pelosi e dotati di squame). I quattro animali magici sono Bai Hu (la tigre bianca) o Ki-Lin (l'unicorno) per l'Ovest, Gui Xian (la tartaruga o il serpente) per il Nord, Long (il drago) per l'Est e, per il Sud, Feng (la Fenice). Quest'ultimo rappresentava le forze primordiali dei cieli, il potere e la prosperità, perciò l'imperatore e l'imperatrice erano gli unici a poter portare il simbolo del Feng. I Cinesi ritenevano che il Feng possedesse i più begli attributi di tutti gli animali e lo rappresentavano con due pergamene nel becco o una scatola che conteneva i testi sacri.
 Feng era l'imperatore di tutti gli uccelli, poiché il suo corpo era l'insieme dei sei corpi celesti: la testa simboleggiava il cielo, gli occhi il Sole, le ali il vento, gli artigli la terra, il dorso la luna e le piume i corpi astrali; inoltre, la coda di Feng conteneva i cinque colori primari. Egli era nato dal fuoco sulla Collina del Falò del Sole e viveva con la sua compagna (o con il suo compagno, visto che il Feng può essere sia maschio che femmina) nel Regno dei Saggi, cibandosi di bambù e bevendo acqua purissima. Feng aveva una voce melodiosa e tutti i galli lo accompagnavano nell'intonazione della sua canzone, che conteneva le cinque note della scala musicale cinese. Egli appariva solamente in periodi di pace e prosperità e durante il concepimento di un bambino, per consegnare l'anima del nascituro al grembo della madre.

Fenghuang


 In Giappone, la Fenice ricompare con il nome di Ho-ho e assume le sembianze di un'aquila enorme coperta di gemme che sputa fuoco. Ho-ho si annovera tra i kami, gli spiriti della natura, e annuncia l'arrivo di una nuova era. Un altro nome di Ho-ho è Karura, che altro non è che la storpiatura del nome sanscrito Garuda, con cui la Fenice è nota in India.

 Nella cultura induista e buddista, Garuda è uno dei supremi veggenti. Ha un corpo umano dorato, ali scarlatte, becco d'aquila e faccia bianca. Sua madre venne imprigionata da Kadru, la madre di tutti i serpenti e Garuda, per liberarla, assunse il Soma, l'elisir che rende immortali. Il dio Viṣṇu, fu molto colpito da ciò e scelse Garuda come avatar (l'incarnazione terrestre) o come suo destriero. Fatto sta che dal rapimento della propria madre, Garuda mantenne un feroce odio nei confronti dei Naga, la famiglia dei serpenti e dei draghi.

 Tracce della Fenice, infine sono presenti anche in America. Quetzalcoatl, il serpente piumato del Messico, aveva la facoltà di risorgere dopo la propria morte e i Maya lo ritenevano un grande sovrano e portatore di civiltà. I Toltechi identificano con questo nome un vero e proprio sovrano, che era anche sacerdote di Tollan, il quale morì arso sul rogo nello Yucatan, proprio come la Fenice.
 Nell'America settentrionale, invece, troviamo Wakonda, che per i Dakota era l'uccello del tuono, mentre per i Sioux era il "grande potere superiore", una divinità generosa che donava potere e saggezza.  

 Alla ricerca della Fenice abbiamo percorso in lungo e in largo il mondo. Si può vedere bene, dunque, quanto stia a cuore all'uomo l'idea della rinascita. E non potrebbe essere altrimenti, perché anche nella vita quotidiana abbiamo bisogno di pensare che, nonostante le sconfitte e le disgrazie, si può sempre ricominciare.
 Per questo dedico questo articolo a una mia carissima amica, che ora si trova con un pugno di cenere in mano. Le auguro con tutto il cuore di essere come l'araba Fenice, più forte della morte (in questo caso in senso figurato) e in grado di diventare ancora più splendida.
 Se l'uomo è riuscito a concepire una figura tanto bella, significa che anche noi abbiamo nella nostra natura il gene della Fenice che non muore mai e che non si arrende. 



Fonti:
- MENEGATTI, Alessandra, "La fenice, animale mitologico";
- Wikipedia, voce "Fenice";
- Wikipedia, voce "Benu";
- Sito internet Astrocultura UAI, articolo "Un mito, una costellazione, un teatro - La Fenice: l'eterno ritorno";
- VAGHI, Fabio, "Il canto della fenice".

martedì 18 settembre 2012

Premio e ringraziamento

 Oggi ho deciso di non parlare di mitologia, ma di dedicare interamente il post a un ringraziamento. Sto parlando di Ely del blog "Il rovo di bosco", che anche questa volta mi ha dimostrato dedizione e affetto regalandomi il premio Simplicity: grazie Ely, sei gentilissima, come sempre!



Le regole per premio Simplicity sono:

Rispondere a questa domanda (che rimarrà invariata): " Che cos'è la semplicità? "
Dedicare un'immagine a chi ti ha donato il premio.
Donare il premio a 12 blogger.

Che cos'è la semplicità?
Semplicità è sentirsi felice per aver mangiato un cioccolatino.
Semplicità è lasciarsi pervadere dall'aria salmastra in riva al mare.
Semplicità è una ragazza che pur vestendosi casual e non truccandosi è comunque stupenda. 
Semplicità è fermarsi a vedere un tramonto, a guardare le stelle, ad ammirare ogni spettacolo che ci offre la natura come fosse la prima volta. 
Infine, semplicità è accogliere gli altri, con tutte le loro diversità. 

L'immagine che dedico a Ely è tra le mie preferite:


Una bellissima fatina che parla con la luna, proprio come te che con le tue mani di fata riesci a creare e a cucinare cose splendide!

Per quanto riguarda i 12 blog, mi trovo in difficoltà, perché non ne conosco tantissimi.
Quindi dono questo premio ai blog che seguo e che conosco:

Beads and Tricks
Cartachetipassa
La Bottega delle Fate
Le Nebbie del Tempo
Magike Mani
FossalonArt
Anima Nera
El mundo del reciclaje
iSi Photography
ESSENZA IN CUCINA
La bottega dei sensi
Pane, Amore e Creatività

Detto questo, potete comportarvi come volete, accettando o no il premio, pubblicandolo o meno. Quello che conta non sono le regole, ma il senso del premio!
Auguro a tutti una buona giornata!

sabato 15 settembre 2012

Preistoria dei vampiri europei

 Oggi più che mai si sente parlare di vampiri. Tutta "colpa" di Stephenie Meyer che, con la sua fortunata saga di Twilight ha riportato in auge queste creature macabre, misteriose e affascinanti. 
 Non voglio qui parlare del successo dei vampiri degli ultimi anni, e nemmeno del primo vero e proprio vampiro letterario, identificato con il celeberrimo Dracula nato dalla mente irlandese di Bram Stoker. Ciò che mi propongo in questo articolo è ripercorrere le origini di queste creature, i cui precursori esistevano già nel mondo antico. Esseri vampirici in realtà sono presenti nelle culture di tutto il mondo, ma sarebbe un compito troppo gravoso tentare di condensarle tutte in un'unico articolo. Per questo, mi soffermerò soprattutto sull'area europea, in attesa di approfondire il discorso anche per altri continenti.   

 Generalmente, l'elaborazione del concetto di "vampiro" può essersi formata solo in seguito all'adozione, da parte delle popolazioni primitive, del culto dei morti. Il trapasso era accompagnato da riti precisi e solenni, proprio perché si credeva che la morte fosse un passaggio dal mondo dei vivi all'al di là. Ma perché ciò avvenisse, il defunto doveva essere preparato a dovere, in modo che il passaggio all'altro mondo avvenisse senza intoppi e il morto non potesse più tornare tra i vivi.  
 Inoltre, la morte era vista dalle popolazioni antiche con soggezione e paura, poiché spesso non si capiva quali cause la provocassero, specie nel caso di morti improvvise o premature. Per questo, i morti venivano tenuti il più lontano possibile. E' questa la ragione per cui i defunti venivano seppelliti fuori dai villaggi; la condizione ideale si verificava quando tra il cimitero e il villaggio vi era una barriera fisica (come un fiume o un ruscello) che, insieme a riti apotropaici, era in grado di ostacolare e impedire il ritorno del defunto dall'al di là.  
 Questa era una paura molto forte per gli antichi, poiché il morto, una volta tornato, non sarebbe stato per nulla ben disposto verso i vivi, che avevano fatto di tutto per isolarlo. Se ciò accadeva, era un'idea comune che il morto avrebbe cercato il fluido che più rappresenta la vita: il sangue.
 Esattamente da questa caratteristica nascono le creature vampiriche, che nonostante i diversi tratti locali, sono accomunate dalla predilezione per la notte e dal fatto di cibarsi del sangue delle loro vittime. Tuttavia, le prime civiltà non le identificarono immediatamente coi vampiri (termine che nell'antichità non esisteva), ma con demoni o divinità che si cibavano di sangue. 
 I primi a tramandare racconti su queste creature furono i Persiani, che diffusero la mitologia riguardante Lilitu (che in ebraico diverrà Lilith), un demone notturno che beveva il sangue dei bambini insieme alla figlia Lilu (cfr. articolo "Lilith" di questo blog). 
 Restando in ambito europeo, invece, esseri vampirici si trovano sia nel mondo greco, che nel mondo romano. Nell'Odissea si fa riferimento a Tiresia, lo spirito di un veggente ematofago che Ulisse incontra nella sua discesa nell'oltretomba. 
 Senza scomodare i poemi omerici, sempre nella mitologia e nella cultura greca troviamo delle divinità e delle creature vampiriche. Prima fra tutte si può considerare Ecate, l'equivalente greca di Lilith. Si tratta di una divinità infera associata alla luna, che nell'epoca tarda assume dei connotati spaventosi: Ecate veniva rappresentata o con l'immagine di tre donne unite per il dorso, che formavano una sorta di triangolo, o di una donna con tre teste di animale (una di cane rabbioso, una di vacca e una di leone). La dea era inoltre la custode dei segreti della magia e dell'esoterismo e per questo fu associata all'operato di streghe e maghi, che la invocavano come loro protettrice.
 Ancor più strettamente connesse al fenomeno del vampirismo erano le ancelle di Ecate, le Empuse. Letteralmente il termine significa "coloro che si introducono a forza" e definisce delle creature aventi testa e torace umano, ma con capelli a forma di serpente e natiche d'asino (simbolo di lussuria). Altre versioni affermano invece che esse avessero una gamba di bronzo e una d'asino. Le serve di Ecate comparivano all'improvviso, a volte su di una carrozza trainata da cani latranti e avevano l'abilità di trasformarsi in vacche, cagne o avvenenti fanciulle. In quest'ultima forma, seducevano i passanti, costringendoli a estenuanti amplessi durante i quali succhiavano l'energia vitale dei loro amanti. Filostrato aggiunge una visione un po' diversa dell'Empusa, che la avvicina ulteriormente alle creature vampiriche: per l'autore della Vita di Apollonio di Tiana, l'Empusa è una donna defunta che torna dall'oltretomba per godere dell'amore che le fu negato in vita da una morte prematura.   

Le Empuse

 Un'altra figura vampirica era Lamia, la figlia del re della Libia Belo, che fu amata da Zeus e vittima della conseguete vendetta di Era. La moglie di Zeus uccise tutti i figli di Lamia (tranne Scilla, l'unica che scampò all'ira della dea) e privò la fanciulla del sonno. Il padre degli dèi però accorse in aiuto di Lamia permettendole di togliersi gli occhi e depositarli in un vaso per riposare. Dopo la perdita dei figli, Lamia si nascose in una caverna, dove si trasformò in un mostro orribile che rapiva i bambini per poi divorarli, allo scopo di compensare la perdita dei suoi. In seguito, si unì alle Empuse, con le quali aveva in comune la facoltà di trasformazione in animale o in bellissima fanciulla e di sedurre gli uomini, ai quali poi succhiava il sangue dopo sfiancanti rapporti sessuali. E' bene sottolineare che spesso si parla di Lamie, al plurale, perché questo personaggio mitologico poteva dividersi in più figure. Una variante di questa creatura era costituita dalla "Lamia del mare" che, come le sirene, attirava gli uomini presso le proprie acque e li uccideva se rifiutavano di unirsi in matrimonio con lei (cfr. articolo "Il canto di Lorelei" in questo blog). Ella sopravvisse anche nel mondo romano, in cui mantenne la propria aura negativa e fu spesso associata alle streghe, anche in epoca medievale e rinascimentale.

Lamia con un bambino

 Da ultimo, per il mondo romano citiamo le Strigi, in grado di trasformarsi in uccelli minacciosi che la notte emettevano urla agghiaccianti e che succhiavano il sangue dei bambini, come narra Ovidio nei Fasti:

Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubavano il cibo
dalla bocca di Fineo, ma da essi deriva la loro razza:
grossa testa, occhi sbarrati, rostri adatti alla rapina,
penne grigiastre, unghie munite d’uncino;
volano di notte e cercano infanti che non hanno accanto la nutrice,
li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi;
si dice che coi rostri strappino le viscere dei lattanti,
e bevano il loro sangue sino a riempirsi il gozzo.
Hanno il nome di Strigi: origine di questo appellativo
È il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente.
Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino per incantesimo,
e null’altro che siano vecchie tramutate in volatili da una nenia della Marsica,
vennero al letto di Proca: Proca nato da cinque giorni,
sarebbe stato una tenera preda per questi uccelli;
con avide lingue succhiano il petto dell’infante,
ma il povero bambino vagisce e chiede aiuto.


 La loro leggenda sopravvisse nel Medioevo, periodo in cui le Strigi assunsero le caratteristiche delle streghe (con le quali hanno in comune la radice del nome).

 Ma i miti riguardanti veri e propri vampiri sorsero nel Medioevo, principalmente nell'Europa orientale, dove le credenze su queste creature e i rituali di protezione avevano attecchito in maniera più profonda rispetto ad altre regioni. Ciò è dimostrato anche dall'etimologia della parola "vampiro": nonostante restino soltanto ipotesi non avvalorate, il termine deriverebbe dal serbo вампир (vampir), che poi avrebbe originato il tedesco Vampir, il francese vampyre, l'inglese vampire e l'italiano vampiro. Inoltre, è da notare che molte lingue slave presentano forme simili al serbo; troviamo il bulgaro вампир (vampir), il croato upir/upirina, il ceco e slovacco upír, il polacco wąpierz, l'ucraino упир (upyr), il russo e bielorusso упырь (upyr') e lo slavo orientale antico упирь (upir').
 Quindi, anche la pista etimologica confermerebbe che il vampiro per eccellenza sia stato concepito nell'area slava. In questo contesto, l'origine del vampiro risale alle concezioni dello spiritualismo slavo, in cui i demoni e gli spiriti avevano una funzione importantissima. Alcuni di questi spiriti erano benevoli, mentre altri avevano un'indole distruttiva e malvagia. A prescindere dalla natura dello spirito, si credeva che esso derivasse dagli antenati o da altri esseri umani deceduti. Questo perché, nel paganesimo slavo, vi era una distinzione netta tra corpo e anima; mentre il corpo era soggetto alla mortalità, l'anima era immortale e, prima di trovare pace nell'al di là, avrebbe dovuto vagare per quarant'anni dopo la morte del corpo. Come i demoni e gli spiriti, anche le anime avevano il potere di interagire con gli uomini durante le loro peregrinazioni sulla terra. I demoni malvagi e le anime empie erano molto temuti dagli slavi, poiché i primi potevano affogare umani, distruggere il raccolto e succhiare il sangue dal bestiame o dalle persone, mentre le seconde spesso nutrivano sentimenti di vendetta. Il concetto di vampiro deriva precisamente da tutte queste credenze. Per i popoli slavi si trattava, infatti, di uno spirito impuro che entrava in possesso di un corpo in decomposizione, dando origine a una creatura non morta, gelosa nei confronti dei vivi, che portava a termine la propria vendetta succhiando il sangue umano per sopravvivere.

 La persistenza del mito dei vampiri nella storia dell'uomo non è altro che una manifestazione della paura della morte e dei morti, che si tentava di esorcizzare attraverso rituali apotropaici e di purificazione. Il fatto poi che molti di questi esseri siano riconducibili al genere femminile mostra anche l'ambiguità dell'atteggiamento degli uomini verso le donne, che per alcune loro caratteristiche naturali, come le mestruazioni, erano associate ai cicli misteriosi della luna e della vegetazione.
 Dove c'è un mistero, o qualcosa che la mente umana non può comprendere, ecco che sorgono creature mostruose e spiriti maligni. E' per questo che ancora oggi, nel 2012, si crede agli oroscopi, ai maghi e ai tarocchi. Del resto, come ci ricorda l'acquaforte del pittore Francisco Goya, "il sonno della ragione genera mostri".

"Il sonno della ragione genera mostri", Francisco Goya


Fonti:
- Wikipedia, voce "vampiro";
- Sito internet Catafalco, articolo "La non-nascita del vampiro";
- Sito internet Catafalco, articolo "Le vampire dell'antichità classica, prima parte: le Empuse";
Sito internet Catafalco, articolo "Le vampire dell'antichità classica, seconda parte: le Lamie";
- Sito internet Catafalco, articolo "Lussuriose divinità ematofaghe".

mercoledì 12 settembre 2012

Il terribile Tremotino

 Oggi parto di nuovo alla carica con i cartoni animati. Nonostante sia ormai cresciuta, non smetto mai di guardarli, perché mi fanno divertire e sanno essere degli intrattenimenti davvero coinvolgenti. Per non parlare dei frequenti riferimenti alla vita reale che contengono!
 Mi soffermo su uno dei miei preferiti, la saga dell'orco Shrek. Nel quarto e ultimo (per ora) episodio, il cattivo è impersonato dal perfido Tremotino, che convince con l'inganno le sue vittime a firmare contratti magici che apportano benefici solo a lui. Ebbene, questi personaggi sono tutt'altro che immaginari! Ne esistono tanti di venditori come Tremotino, che escogitano gli stratagemmi più impensabili per truffare la gente.

Il perfido Tremotino del film "Shrek e vissero felici e contenti"

 Voglio però risalire alle origini di questa figura, che affondano nel folklore germanico. Il nome di Tremotino è infatti Rumpelstilzchen, che in tedesco significa "paletto rumoroso". Questo appellativo deriva da un altro essere fantastico, il rumpestilt o rumpestilz, una specie di goblin (chiamato anche pophart o poppart) che si diverte a fare chiasso sbattendo dei paletti o raschiando il legno. Il concetto è simile a quello del poltergeist o rumpelgeist, un "fantasma rumoroso" che sposta gli oggetti domestici facendo fracasso. Già dal nome, dunque, è possibile ravvisare un carattere fastidioso proprio di questo personaggio, che viene alla luce con una fiaba che verrà pubblicata per la prima volta dai fratelli Grimm nel 1812.

 La storia narra che molto tempo fa viveva un mugnaio povero quanto bugiardo, che aveva una figlia molto bella. Un giorno, il mugnaio incontrò il re e si vantò del fatto che sua figlia sapeva trasformare in oro la paglia che filava. Il re, stupito, ordinò al mugnaio di condurre la figlia al suo cospetto il giorno successivo.
 Appena la fanciulla arrivò, il re la condusse in una stanza piena di paglia con un fuso e un filatoio e le disse: "Se entro domani questa paglia non sarà diventata oro, tu morirai!". Una volta rimasta sola, la fanciulla scoppiò a piangere disperata, perché non era vero che sapeva trasformare la paglia in oro e non sapeva come uscire da quel pasticcio. 
 A un tratto, la piccola porta della soffitta si aprì e ne venne fuori un nanetto che, vedendo la giovane in lacrime, le si avvicinò. 
 "Perché piangi, fanciulla?"
 La giovane, affranta, si rivolse al nano: "Devo trasformare tutta questa paglia in oro entro domani, ma non so come fare!".
 Un lampo di furbizia balenò negli occhi del nanetto: "Posso farlo io per te, se mi darai qualcosa in cambio".
 La ragazza abbassò lo sguardo e prese tra le mani la collana che indossava. "Posso darti la mia collana", rispose. L'omino accettò e, sedutosi al filatoio, trasformò tutta la paglia in oro facendo girare la ruota.

Tremotino e la mugnaia
 La mattina dopo il re, vedendo la stanza piena d'oro, si fece vincere dalla bramosia e volle possederne ancora di più. Per questo, condusse la fanciulla in un'altra stanza, più grande di quella del giorno prima (di modo che contenesse più paglia), intimandole di nuovo di trasformare la paglia in oro se non voleva morire.
 Di nuovo, la ragazza iniziò a singhiozzare scoraggiata ma, come la notte precedente, anche stavolta la porticina della soffitta si aprì e sopraggiunse il nanetto.
 "Cosa mi darai, bella fanciulla, se anche questa volta ti aiuterò?"
 "Ecco, prendi questo anello" disse la mugnaia sfilandosi il gioiello dal dito.
 Anche questa volta l'omino mantenne la promessa, e il giorno dopo il re trovò la stanza piena d'oro. Ma nemmeno ora la sete di ricchezza del re si era placata. Anzi, egli condusse la ragazza a un'altra stanza, ancora più grande, con la solita raccomandazione di trasformare la paglia in oro. Stavolta, però, il re disse alla mugnaia che se avesse portato a termine il compito che le aveva affidato, sarebbe diventata sua moglie.
 Di nuovo il nano accorse in aiuto della ragazza in lacrime, che confessò che non aveva più nulla da dargli in cambio del favore. Il nanetto rimase un attimo a riflettere, poi disse:
 "Bella mugnaia, promettimi che quando diventerai regina mi darai il tuo primogenito".
 La fanciulla, che non voleva morire, acconsentì, sperando che con il passare del tempo l'omino si sarebbe dimenticato della promessa. Così, ancora una volta, il nano filò per tutta la notte, trasformando la paglia in oro.
 Il re, dopo l'ennesimo prodigio, sposò la mugnaia tra canti e feste. Gli anni passarono, e la ragazza ebbe un bel bambino. La nuova regina era talmente felice per quello splendido dono, che si dimenticò completamente della promessa fatta al suo amico nano. Questi però se ne ricordava bene e si presentò dalla fanciulla, esigendo il principino, come d'accordo. La fanciulla scoppiò a piangere, perché non poteva separarsi da suo figlio.
"Ti prego, non prenderti il mio bambino, ne morirei! Ti darò qualunque cosa, ma lasciami il mio bambino!".
 Il nano si alterò: "Me l'hai promesso, regina. Non voglio ricchezze, voglio il principino!".
 Ma dopo quell'impeto di rabbia, l'omino si calmò e disse, sornione: "Va bene, regina, ti darò una possibilità. Se scoprirai il mio nome entro tre giorni, rinuncerò al bambino. In caso contrario, non lo rivedrai mai più!". E scomparve dalla vista della fanciulla.
 La giovane pensò tutta la notte ai nomi più bizzarri che conosceva. Il giorno dopo mandò un messo per raccogliere informazioni o altri nomi dal paese. Quando il nano si presentò a corte, la regina snocciolò tutti i nomi più strani a cui aveva pensato: Gaspero, Gualtiero, Orlando, Zefirino, Anacreonte, Pulcinella, Stenterello, Meneghino, Codinzolo, Panciutello...ma a ogni nome il nano sorrideva beffardo, fregandosi le mani. Saltellava allegro dicendo "No, no, non mi chiamo così!".
 Allora il giorno seguente la regina cercò la soluzione ancora con più foga: consultò tutti i suoi libri, mandò dei messi anche nei paesi vicini. Ma quando il nano si presentò la seconsa volta, la scena si ripeté pari pari.
 Arrivò così il terzo giorno, l'ultimo a disposizione della regina per scoprire il nome dell'omino. Uno dei messi tornò da un paese vicino senza nuovi nomi, ma con una notizia importante: su un monte alto e scosceso, aveva visto una piccola casetta e vicino a essa un nano che saltellava trepidante e che cantava:    
“Il pane fa oggi, la paglia domani, ma il meglio è per me è di avere il figlio del re. Perché nessuno sa trallalalalà che questo nanino invero assai carino, trallalalalino, si chiama Tremotino”.
 "Non può che essere lui!" pensò la regina, che finalmente vide riaccendersi la speranza nel proprio cuore.
 Quando il nano giunse da lei, baldanzoso e sicuro della vittoria, la regina si finse affranta ed elencò ancora qualche nome a caso.
 "Forse ti chiami Gerosolino?"
 "No!"
 "Trippettino?"
 "No! No!".
 L'omino era a ogni secondo più sicuro di vincere e di portarsi a casa il piccolo principe quando, con aria indifferente la fanciulla disse:
 "Allora ti chiami forse...Tremotino?"
 Al nano si gelò il sangue in corpo. Rimase con la bocca spalancata, senza emettere suono.
"N-non è possibile! Solo il Diavolo può averti svelato il mio nome!" disse infuriato Tremotino, prima di scappare per non farsi più rivedere.


Il finale della fiaba, però, ha molte altre versioni oltre a quella che è stata appena presentata. In una Tremotino, pestando i piedi infuriato, rimane incastrato con il piede sinistro nel pavimento e, afferrandolo, si squarcia in due. Un altro epilogo vuole che Tremotino sprofondi talmente in profondità con il piede destro da creare una voragine in cui lui stesso precipita, scomparendo per sempre. Infine, nella versione orale nota ai fratelli Grimm, il nano vola fuori dalla finestra su un mestolo da cucina.

 Insomma, anche se all'inizio il nano sembra un personaggio positivo, che vuole aiutare la mugnaia in difficoltà, alla fine si rivela tutt'altro che generoso. In fondo, si può dire che il Tremotino di Shrek abbia conservato questo aspetto originario, che è stato rimarcato ed evidenziato.
 Ciò che stupisce è come anche una fiaba per bambini possa riflettere anche gli aspetti brutti della realtà, che non è fatta da personaggi amichevoli e disponibili, ma da truffatori pronti ad approfittare della situazione.




Fonti:
- Wikipedia, voce "Tremotino".

giovedì 6 settembre 2012

La Madonna di Loreto, patrona degli aviatori

 Eccomi qui, di nuovo di ritorno dalle vacanze e di nuovo con storie da raccontare. Del resto, ogni viaggio che si compie ci permette di apprendere aneddoti curiosi. 
 Questo, almeno, è quello che è capitato a me quest'anno, nelle zone dell'Umbria e delle Marche, dove oltre ai posti stupendi ho potuto scoprire nuove cose.

 Una tappa dei miei viaggi è stata Loreto, con il suo celebre santuario. Ciò che distingue questa chiesa dalle altre è la leggendaria presenza al suo interno della casa della Madonna

La "Santa Casa" vista dall'esterno
 



L'interno della casa

















 Si tratta, secondo la tradizione cristiana, della piccola casa di Nazareth dove viveva Maria. Proprio in quella casa, la Madonna ricevette l'annunciazione della prossima e prodigiosa maternità dall'arcangelo Gabriele e visse con Gesù e Giuseppe per un imprecisato periodo di tempo. Lì si riunirono anche gli Apostoli dopo la Resurrezione, celebrando l'Eucarestia come il Maestro aveva insegnato loro. 

 Questa dimora è dunque un luogo importante nella tradizione cristiana. Ora facciamo un importante salto temporale e arriviamo all'anno 1291. Siamo nel mese di maggio, in Terra Santa, dove i Turchi selgiuchidi hanno preso il potere. 
 La leggenda vuole che il 10 di maggio alcuni angeli avessero prelevato la casa di Maria per trasportarla in volo da Nazareth a Tersatto, vicino all'odierna Fiume. Furono dei boscaioli a trovare quella casa misteriosa e a informare del fatto il parroco don Alessandro, che non poteva recarsi sul posto a causa di un'infermità che lo costringeva a letto. Ma non fu necessario che il parroco si muovesse dalla sua casa per avere notizie più precise. La Madonna stessa apparve a don Alessandro per certificare che quella era veramente la casa dove ella aveva vissuto e dove Pietro aveva celebrato la prima Eucarestia. Come segno dell'apparizione, don Alessandro venne guarito dalla malattia.
 La straordinaria notizia giunse anche agli orecchi del conte Nicolò Frangipani, governatore all'epoca di Dalmazia, Croazia e Illiria. Costui decise di inviare una delegazione in Terra Santa, che potè constatare l'effettiva sparizione della casa di Maria in Palestina.

Traslazione della "Santa Casa" a opera degli angeli


 Il viaggio della Santa Casa, però, non finisce qui. Tre anni e sette mesi dopo la prima traslazione, gli angeli ripresero nuovamente la casa e la posarono presso Ancona, dove attualmente sorge la chiesa di Santa Maria Liberatrice di Posatora, il cui nome si riferisce proprio a questo episodio. "Posatora" deriverebbe infatti dalla locuzione latina posa-et-ora, fermati e prega.
 Dopo otto mesi soltanto, gli angeli spostarono ancora la casa vicino a Porto Recanati, presso località Banderuola. Dei pastori di quei luoghi videro una luce abbagliante uscire dalle nubi e, avvolta dal bagliore, la casa. Ma si trattava di un luogo troppo pericoloso per la dimora della Madonna, poiché da una parte vi era il pericolo delle invasioni turche dal mare, e dall'altra i pellegrini rimanevano vittime di numerosi malfattori che derubavano i fedeli.
 Così, gli angeli trasportarono la casa su un terreno poco distante, posseduto dai fratelli e conti Stefano e Simone Rinaldi di Antici. Costoro tentarono di trarre profitto personale dalla presenza della casa appropriandosi delle offerte dei pellegrini. I fratelli giunsero addirittura a inviare una petizione al papa Bonifacio VIII per ottenere il titolo di proprietà.
 Stando così le cose, gli angeli decisero di traslocare per l'ennesima volta e come località decisiva scelsero un luogo pubblico, che nessuno avrebbe potuto reclamare: una collina coperta da lauri. Dalla parola latina laurus, il luogo assunse il nome di Lauretum, l'odierna Loreto. Era la notte tra il 9 e il 10 dicembre 1294.
 Per questo da allora, nelle Marche si diffuse l'usanza di accendere, la notte tra il 9 e il 10 dicembre, dei grandi fuochi (detti "focaracci") per illuminare il cammino alla Santa Casa. Il 10 dicembre si celebra tuttora nel mondo cattolico la festa della Madonna di Loreto, che coincide con la giornata della Marche.
 Dal 1920, la Madonna di Loreto divenne anche patrona degli aviatori, proprio per l'affinità tra gli aeronauti e gli angeli che trasportarono la Santa Casa in volo.

 Le discussioni sulla veridicità della leggenda sono ancora accese e lontane da una conclusione soddisfacente.
 Ciò che è veramente suggestivo, però, è l'atmosfera di raccoglimento che vi è all'interno del Santuario di Loreto. E' vero che vi sono anche dei negozi, come la libreria presente nel complesso della chiesa e delle piccole attività vicine al Santuario che ne sfruttano la popolarità per trarre dei profitti, come già succedeva in passato. Ma all'interno della chiesa, nonostante i numerosi turisti, ci si sente davvero accolti. Le celebrazioni non vengono interrotte per l'afflusso dei visitatori, diversi religiosi, all'interno delle cappelle del santuario, si pongono all'ascolto dei fedeli, tentando di dare una mano a chi soffre.
 Perfino l'aspetto del Santuario sembra richiamare alla comunione tra popoli diversi, come dimostra la coesistenza di stili diversi (tedesco, americano e polacco) per ogni cappella. 
 Leggenda o no, forse è per questo che gli angeli hanno lasciato la Santa Casa a Loreto. Perché nonostante la speculazione economica superficiale, lo spirito della Madonna, che accorre in aiuto dei suoi fedeli, è rimasto intatto nei secoli.    



- Wikipedia, voce "Loreto".