mercoledì 22 agosto 2012

Sun Wukong o Son Goku: dalla Cina con furore

 Per la mia generazione, cresciuta negli anni '90, i cartoni animati giapponesi sono stati un tratto distintivo. Quando ancora esisteva la televisione per bambini e ragazzi (nemmeno lontanamente paragonabile a quella di adesso) il palinsesto prevedeva una proiezione massiccia di anime, il nome tecnico per le serie animate giapponesi. Che fosse Sailor Moon, Mila e Shiro o Holly e Benji, nessuno dei nati negli anni '80 o al principio dei '90 può aver passato la propria infanzia senza vedere almeno un cartone animato made in Japan. Uno dei più famosi è sicuramente la serie Dragon Ball, tratta dal manga di Akira Toriyama, che aveva per protagonista lo strambo personaggio di nome Goku.

Goku della seria "Dragon Ball"

 Nonostante il grande successo di Dragon Ball, però, non molti sanno che il personaggio di Goku si ispira a una figura mitologica cinese, di nome Sun Wukong. Solo in seguito, infatti, Sun Wukong e la sua leggenda approdarono in Giappone, dove il nome venne modificato in Son Goku.  Le sue avventure sono narrate nell'opera dal titolo Viaggio in Occidente stilata da Wu Cheng'en, che si basa su racconti popolari risalenti al periodo della dinastia Tang, vale a dire tra il 618 e il 907.

 I primi capitoli di quest'opera sono dedicati interamente al nostro Sun Wukong, l'Affascinante Re delle Scimmie. Questo personaggio, infatti, si distingue non solo per essere un grande guerriero, un re, un mago e un saggio, ma soprattutto per le sue sembianze scimmiesche e la sua natura prodigiosa.
 La storia di Sun Wukong inizia quando una roccia venne ingravidata dal vento, dando origine allo scimmiotto di pietra. Questi diede subito prova di grande coraggio, poiché riuscì a portare il popolo delle scimmie nella Caverna del Sipario d'Acqua, presso la Montagna dei Fiori e dei Frutti, garantendo prosperità alla sua gente.
 Ma Sun Wukong era tormentato dall'idea che la felicità del proprio popolo potesse finire, così, per rendere eterna la propria condizione, si recò dal saggio Subhodi. Questi gli insegnò la Via (il celebre Tao) con tutti i grandi poteri che essa conferiva; Sun Wukong imparò come diventare Immortale e come difendersi dalle Tre Calamità, senza contare che si impossessò dell'arte della trasformazione (riusciva a compierne addirittura 72) e che era in grado di volare su una nuvola.
 Tuttavia, Subhodi si rese conto che Sun Wukong aveva appreso solamente i poteri del Tao, ma non la sua essenza. Per questo il venerabile saggio scacciò Sun Wukong e gli proibì di dichiararsi suo discepolo.

Sun Wukong o Son Goku


 Il re delle scimmie tornò alla Montagna dei Fiori e dei Frutti e, grazie alle tecniche apprese da Subhodi, sottomise i regni delle specie limitrofe e pretese in dono dai quattro Dragoni Re dei Mari un bastone in grado di mutare la propria lunghezza a piacimento (che in origine era una delle colonne che delimitavano l'oceano), un elmo di fenice, un'armatura d'oro e degli stivali magici.    
 Il crescente potere e l'arroganza di Sun Wukong, però, non potevano passare inosservati. Fu così che l'Imperatore di Giada, per porre un freno all'ambizione del re delle scimmie, assegnò a Sun Wukong il compito di Custode dei Cavalli Celesti. Ovviamente lo scimmiotto non poteva piegarsi e svolgere un incarico tanto umile, quindi decise di tornare alla sua montagna, scatenando l'ira dell'Imperatore di Giada. Quest'ultimo mosse guerra a Sun Wukong, inviando contro di lui il Re Li e suo figlio Nezha. Ma il re delle scimmie si dimostrò un avversario troppo forte: Sun Wukong sconfisse l'esercito dell'Imperatore di Giada e ottenne dallo stesso il titolo di "Grande Saggio Pari al Cielo" e di essere chiamato nelle sfere celesti.
 Perfino in Cielo Sun Wukong diede prova della propria superbia; si cibò delle Pesche dell'Immortalità e si introdusse di nascosto a una festa a cui non era stato invitato per mangiare e bere tutto ciò che era stato preparato per il banchetto, per poi tornare alla sua montagna.
 Così per la seconda volta l'Imperatore inviò un esercito contro Sun Wukong il quale, dopo una durissima battaglia, venne sconfitto e consegnato al Cielo. La punizione che venne decisa per lo scimmiotto fu la morte, ma Sun Wukong era ormai immortale, poiché si era cibato delle pesche sacre. Nessuna arma o tortura aveva potere contro di lui, che usciva illeso dopo ogni tentativo di porre fine alla sua vita.
 Allora Sun Wukong venne rinchiuso in una fornace ardente, nella speranza che il suo corpo fondesse. Ma quando venne aperta la porta della fornace, lo scimmiotto era ancora vivo e i suoi occhi erano infuocati e le sue pupille dorate. Sun Wukong aveva acquisito il potere di vedere oltre ogni inganno. 
 Pieno di rancore, Sun Wukong mette il Cielo a ferro e fuoco, sconfiggendo tutti i soldati imperiali che si scagliavano contro di lui. La situazione era grave, e l'Imperatore dovette ricorrere all'aiuto di Tathāgata Buddha, che sfidò il re delle scimmie a superare una prova singolare:  Sun Wukong sarebbe dovuto uscire dalla sua mano, che era in grado di ingrandirsi a dismisura. Così, quando Sun Wukong credette di aver raggiunto i confini dell'universo, in realtà era arrivato in prossimità delle sole dita della mano del suo avversario. In questo modo, il Buddha sconfisse Sun Wukong e lo seppellì sotto la Montagna dei Cinque Elementi.

 Ma la storia del nostro pestifero scimmiotto non finisce qui.
Dopo 500 anni, la dea della misericordia Bodhisattva Guanyin venne incaricata dalo stesso Buddha di cercare un uomo mite ma che allo stesso tempo fosse ingrado di affrontare il periglioso viaggio verso Ovest allo scopo di diffondere nell'impero Tang gli insegnamenti del Buddha, contenuti nei Sutra. La dea misericordiosa pensò di concedere la libertà a Sun Wukong, che però sarebbe dovuto diventare discepolo dell'uomo prescelto.
 Costui venne trovato nel monaco Chen Xuanzang, detto Sanzang (Sanzo, in giapponese), il quale, messo al corrente dallo stesso scimmiotto della situazione, accettò di liberare Sun Wukong, accogliendolo come suo discepolo con il nomignolo di Xingzhe.
 Ovviamente Sun Wukong non poteva essersi trasformato improvvisamente in un agnellino, nonostante i 500 anni di prigionia. Alla prima ramanzina del monaco, lo abbandonò, costringendo Bodhisattva Guanyin a intervenire in aiuto di Xuanzang donandogli un diadema magico da far indossare a Sun Wukong. Grazie a una formula magica appresa dalla dea, Xuanzang poteva restringere il diadema sulla testa di Sun Wukong, provocandogli un dolore tremendo. Quando Sun Wukong scoprì che non poteva togliersi il maledetto diadema, tentò di uccidere a suon di botte il suo maestro, che in risposta recitò di nuovo la formula magica.
 Da allora in poi, Sun Wukong ubbidì a Xuanzang per tutta la durata del loro viaggio. Lungo il cammino, Sun Wukong e Xuanzang incontrarono nuovi compagni di avventura e fronteggiarono diversi nemici, finché riuscirono a portare a termine il loro compito. Sun Wukong, da parte sua, imparò a comportarsi meglio, tanto che raggiunse l'Illuminazione con il suo maestro e diventò a sua volta un Buddha.
Sanzo e Son Goku della serie "Saiyuki"

 Probabilmente questa storia voleva dimostrare che chiunque, anche l'essere più dissoluto, poteva raggiungere l'Illuminazione e imparare la buona condotta. Ciò non toglie che agli occhi di noi umani risultino più interessanti le marachelle di questo curioso personaggio, perché sono i vizi che lo rendono simile a noi. In fondo, Sun Wukong o Son Goku rappresenta la nostra condizione: per metà siamo soggetti alle tentazioni e ai piaceri della carne, mentre per l'altra metà aneliamo al Cielo.
 Eh sì, c'è un po' di Goku in tutti noi.
Fonti:
- Wikipedia, voce "Sun Wukong";
- Forum Curiositas Cognoscendi, articolo "Sun Wukong o Son Goku - Il mito della scimmia".

domenica 19 agosto 2012

Melqart, il dio di Annibale

 E' incredibile come anche le vacanze possano costituire un'occasione per imparare cose nuove. Nell'ultima settimana sono stata sulla costa ligure e, su insistenza del mio ragazzo (un aspirante tecnologo alimentare), abbiamo fatto visita al museo dell'olio di Imperia. Ero partita con tutta la malavoglia del mondo, credendo di sorbirmi una serie di nozioni tecniche sulla produzione e sulle tecniche di lavorazione delle olive, invece mi sono dovuta ricredere. Quel museo si è rivelato una piacevole sorpresa; non si trattava di una noiosa illustrazione delle proprietà dell'olio e dei processi di produzione, ma un'interessante mostra storica sull'ulivo e i suoi frutti, che non appartengono solo alla sfera naturale, ma anche mitologica e religiosa. Molte civiltà mediterranee, infatti, assegnano un posto di primaria importanza all'ulivo, che diventa simbolo anche di varie divinità, di cui Atena è forse l'esempio più noto. 

Ma la prima divinità a cui è stato associato l'olio era il fenicio Melqart. I Fenici, come li chiamava Omero, o Cananei, come li identificava la Bibbia, furono tra i primi a conferire sacralità al prezioso unguento, utilizzato nei sacrifici a vari dèi, come appunto Melqart. Nel tempio di questa divinità a Tiro, infatti, campeggia un ulivo dalle fronde lussureggianti, che in altri templi dedicati a Melquart diventa un'ulivo di smeraldi. 

Moneta raffigurante Melqart


 Ma chi era Melqart? Si tratta senza dubbio di una divinità misteriosa, la cui natura originaria è praticamente sconosciuta. All'inizio probabilmente questo dio possedeva attributi solari e anche marini, e si configurò come protettore dei naviganti.
 R. Dussaud ipotizza che Melqart fosse il frutto della fusione tra il dio marino Yam e Baal, la divinità più importante delle popolazioni cananee. Tuttavia tale affermazione è priva di fondamento, visto che nei testi poetici di Ugarit le due divinità appaiono in contrapposizione l'una con l'altra. Un'altra scuola di pensiero, capitanata da W. F. Albright, identifica Melqart con una divinità del mondo sotterraneo, Malku,  il quale si accompagnava a Nergal, un altro dio mesopotamico (precisamente sumero) dell'oltretomba. Ma anche in questo caso si tratta di mere supposizioni che mancano di prove convincenti. 
 Quel che è certo è che Melqart era il dio poliade di Tiro, una delle città più importanti della Fenicia, e da lì il suo culto si diffuse in altre città puniche, come Cartagine e Gades (o Tartesso), l'antica Cadice. Il nome originario fenicio Milk-Qart significa infatti "re della città" e connette strettamente questa divinità all'istituzione della monarchia, che a Tiro assunse un'importanza peculiare rispetto ad altre città fenicie. Basti pensare che a Tiro si credeva che i bambini sacrificati (tra i Fenici vi era l'usanza di sacrificare infanti, definita moloch) assurgessero, dopo la morte, a una condizione divina e assumessero il titolo di "re".
 Questa divinità assunse un'importanza sempre maggiore, tanto che il Gran Sacerdote di Melqart, a Tiro, era secondo solo al re. Divenne d'uso pronunciare il nome di Melqart durante la stipulazione dei contratti, il che rese il dio il nume tutelare dei mercanti i quali, per un popolo di naviganti e commercianti come i Fenici, rappresentavano la classe sociale principale. Per questo, si cominciò a costruire un tempio dedicato a Melqart in ogni colonia fenicia; uno dei più importanti si trova a Cadice, centro fondamentale del culto di Melqart. Perfino in alcuni nomi punici, come Amilcare e Bomilcare, si può notare la forte presenza di questa divinità tra il popolo fenicio.


Riproduzione di una stele di Melqart


 Sembra che anche il grande condottiero cartaginese Annibale Barca, figlio di Amilcare Barca, fosse molto devoto a Melqart. Lo storico Livio ci narra la leggenda che vuole che prima di compiere la marcia verso l'Italia, Annibale si fosse recato in pellegrinaggio a Gades (l'attuale Cadice) e avesse offerto un sacrificio a Melqart. La notte prima della partenza, al condottiero apparve in sogno un bellissimo giovane, inviato da Melqart per mostrargli la via per l'Italia. Il giovane raccomandò ad Annibale di non voltarsi indietro durante il percorso, ma il Barcide non resistette e vide dietro di sé un enorme serpente che distruggeva ogni cosa che incontrasse sul suo cammino. Quando Annibale chiese al suo accompagnatore il significato di quella visione, Melqart stesso gli disse che ciò che aveva visto era la desolazione della terra d'Italia. Quindi, il dio intimò al condottiero di seguire la sua stella e di non indagare oltre riguardo ai disegni oscuri del cielo.  
 In seguito, in epoca ellenistica e romana, a causa dei suoi attributi solari, Melqart venne identificato con Eracle di Tiro (l'Ercole romano) e anche con Crono (Saturno per i Romani). Questo perché nelle relazioni dei loro viaggi, i geografi e gl storici antichi tendevano a riprodurre e a riportare entro i connotati della propria cultura di appartenenza le divinità e le usanze dei popoli stranieri. Ciò accadde anche a Melqart, che venne identificato totalmente con l'eroe che compì le dodici fatiche. Anche il tempio di Gades venne annotato da Strabone come "il più occidentale tempio dell'Eracle di Tiro" e le sue colonne erano ritenute (erroneamente, secondo lo storico greco) le autentiche colonne d'Ercole, che l'eroe aveva eretto come estremo confine occidentale del mondo. 

 Questa sovrapposizione di figure mitologiche e religiose di culture diverse sicuramente non aiuta a definire i tratti di questa divinità, per noi sconosciuta ma un tempo tanto importante. Certo è che, se non avessi dato retta al mio "moroso", come si dice dalle mie parti, forse non avrei mai sentito parlare di Melqart e della mitologia fenicia. Per questo gli dedico questo articolo e lo ringrazio per tutti gli spunti che mi ha dato finora e che hanno contribuito all'elaborazione di altri post.
 La mitologia, in fondo, fa parte della quotidianità, anche se non ce ne rendiamo conto.  


Fonti:
- Wikipedia, voce "Melqart";
- Wikipedia inglese, voce "Melqart";
- Enciclopedia Sapere.it, voce "Melqart";
- Sito internet Cronologia.leonardo, articolo "I fenici (in breve)";
- Enciclopedia dell'arte antica Treccani, voce "Melqart";
- VALTORTA, Simone, "Storia dell'olivo - Le origini di una pianta e di una tradizione";
- Enciclopedia Treccani, voce "Melqart".

martedì 7 agosto 2012

Iride, la dea dell'arcobaleno

 Immaginate un cielo in tempesta. Inizia tutto con un forte vento, che sembra spazzar via ogni cosa. Ed ecco che all'improvviso si scatena la pioggia, con gocce che cadono fitte e taglienti e magari anche con una grandine martellante. Sembra il finimondo, in quei momenti. Eppure dopo un po' le nostre orecchie non sentono più il rumore assordante dei tuoni e dell'acqua. E' in quel'istante che ci affacciamo alla finestra per controllare che sia tutto a posto. E, come per magia, vediamo di nuovo il sole che illumina la poche gocce di pioggia che ancora cadono. Ma quelle gocce non sono più i pugnali di prima, sono docili e leggere. E nel cielo che prima era grigio e minaccioso, vediamo svettare la prova che dopo la bufera il mondo continua il suo corso e si rialza: l'arcobaleno.

 Quel ponte colorato tra cielo e terra sembra davvero un segno di riconciliazione tra gli elementi naturali. E' dunque naturale che gli antichi Greci identificassero questo particolare fenomeno con una divinità, Iris o Iride, la messaggera dalle ali d'oro.
 Iride era figlia di Taumante ed Elettra, una delle oceanine generate da Oceano e Teti. Di questa unione parla anche Esiodo nella sua Teogonia:

E Taumante sposò di Oceano dai gorghi profondi la figlia Elettra. Ed Iris veloce diè questa alla luce, con Occhipete e Procella, le Arpie dalle fulgide chiome, che a pari erano a volo coi soffi del vento e gli uccelli, sopra le veloci penne.

 Da queste poche righe si deduce che Iride era sorella delle terribili Arpie, ma in realtà non condivideva la loro natura sgradevole. Ella, infatti, era molto avvenente e dolce, e vestiva dei chitoni variopinti, forse formati da gocce iridescenti, i cui colori lasciavano la scia nel cielo fino a formare l'arcobaleno.

Iride e Morfeo

 Inutile dire che dai marinai era una divinità ben vista, poiché essi ritenevano che Iride portasse il bel tempo. Per questo le veniva attribuito come sposo il benefico Vento dell'Ovest e si pensava che da questa unione fosse nato addirittura Eros, il dio dell'amore.
 Ma il fondamentale compito di Iride era portare i messaggi da parte di Era e di Zeus. Una mansione dunque simile a quella di Hermes, dio dai piedi alati, ma con delle sottili differenze. Iride è una divinità che appartiene solo al campo del mito, non a quello del culto, mentre Hermes era una divinità oggetto di venerazione. Inoltre, se Hermes portava messaggi positivi da parte degli dèi, Iride recava invece delle notizie funeste. Basti ricordare che Era inviò Iride per sobillare le donne troiane contro Enea, le quali affondarono la flotta del prode Troiano in Sicilia.
 I messaggi non erano i soli servigi che Iride rendeva a Era e Zeus. Ella era la devota serva di Era, tant'è che le preparava addirittura il letto prima che la potente dea vi si coricasse con Zeus. Per il padre degli dèi, poi, Iride era solita andare negli Inferi (privilegio molto raro tra gli abitanti dell'Olimpo) per attingere alle acque fredde dello Stige, che venivano impiegate in occasione dei giuramenti solenni degli dèi.
 Un'ultima sfaccettatura di Iride si può ritrovare nella tradizione romana, poiché veniva qui identificata con Fama, irruente messaggera di Giove che gridava ai quattro venti sia notizie buone che cattive. Per la sua natura, tale divinità veniva raffigurata con ali piene di occhi, bocche e lingue, mentre suonava una o due trombe: una per la verità, l'altra per la menzogna.

 Personalmente, però, preferisco pensare all'immagine originaria di Iride e del suo arcobaleno, capaci di portare serenità e pace dopo la burrasca. 


Fonti:
- CERINOTTI, Angela, Atlante dei miti dell'antica Grecia e di Roma antica, Demetra S.r.l., Colognola ai Colli (VR), 1998, pp. 57, 97;
- Sito internet Mitologia Greca, articolo "Iris o Iride";
- Sito internet Mitologia e...dintorni, voce "Iride";  
- Sito internet Mitologia e...dintorni, voce "Fama";
- Wikipedia, voce "Iride". 

venerdì 3 agosto 2012

Baba Jaga, la strega dell'est

 Oggi, tanto per cambiare un po', devierei leggermente dal mondo della mitologia per entrare nell'universo delle fiabe.
 In ogni tradizione folkloristica che si rispetti, c'è sempre qualche figura inquietante che spaventa i bambini e che mette in difficoltà l'eroe protagonista: un mago cattivo, un drago (o un altro mostro qualsiasi), oppure una strega. E' proprio su quest'ultimo genere di antagonista che voglio focalizzarmi.

 Nell'area slava, specialmente in Russia, la strega protagonista di molte fiabe ha un nome preciso: Baba Jaga, traslitterazione dell'originale Баба-Яга. Si tratta di una vera e propria megera dall'aspetto orripilante: ha i denti di ferro, un naso che tocca il soffitto della sua capanna quando dorme e un corpo sottile come uno scheletro, che le ha fatto acquisire il soprannome di "Baba Jaga dalle Gambe Ossute". Nonostante la corporatura, Baba Jaga è famosa per il suo terribile appetito, dimostrato dalla quantità incredibile di leccornie che si trovano nel suo forno.
 Quando compare Baba Jaga, non passa certo inosservata: il forte vento, gli alberi e le foglie fruscianti annunciano l'arrivo della strega, che si muove grazie a un enorme mortaio diretto da un pestello. Eppure, malgrado il frastuono che l'accompagna, Baba Jaga non lascia tracce del suo passaggio, perché con una scopa di betulla d'argento cancella ogni sua orma.

Baba Jaga a cavallo del suo mortaio
 Il mezzo di locomozione non è la sola caratteristica bizzarra della megera. Baba Jaga, infatti, abita nel profondo del bosco in una capanna dotata di grosse zampe di pollo, di modo che la strega possa muoversi spesso. L'abitazione di Baba Jaga sembra avere una volontà propria: mentre si muove gira vorticosamente su se stessa e si ferma quando un visitatore vi giunge in prossimità. Anche l'aspetto della casa rispecchia la natura di chi vi dimora; una delle porte ha un buco della serratura a forma di una bocca piena di denti acuminati e le mura esterne sono costituite dalle ossa delle sue vittime, sormontate da teschi. Inoltre, mentre gira su se stessa, la casa emette terribili urla, e arresta il suo corso solo se un viandante recita una formula magica. 

La casa di Baba Jaga

 In tal caso, la capanna si stabilisce nel punto in cui ha incontrato il visitatore e la sua porta si apre. Il trattamento della strega verso gli ospiti, però, non è sempre lo stesso. Nonostante Baba Jaga sia un personaggio minaccioso e inquietante, che può decidere di uccidere o schiavizzare chi giunge alla sua capanna, ella si può rivelare un aiuto prezioso per i virtuosi, i puri di cuore e per chi cerca la conoscenza. In questo, Baba Jaga può essere concepita come la Madre Terra, spesso selvaggia e pericolosa, ma anche benevola. Infatti, Baba Jaga nelle fiabe russe può ricoprire il ruolo di aiutante, che dà consigli o elargisce doni magici ai puri di cuore. 
 Baba Jaga è anche la personificazione della conoscenza. La vecchia è onnisciente, ed è la guardiana delle fonti della vita e della salute, che può decidere a chi donare parte dei suoi poteri. Anche quando svolge il ruolo di strega cattiva, infatti, premia chi cerca la conoscenza con tutte le sue forze. Ovviamente il cammino verso la conoscenza è irto di difficoltà, e Baba Jaga sottopone chi giunge da lei a dure prove o a patti che avvantaggiano solo lei, che non è certo una forza benevola per i viandanti. Tuttavia, le prove e i patti di Baba Jaga rappresentano per gli uomini la possibilità effettiva di raggiungere la conoscenza, che altrimenti sarebbe loro preclusa. Per questo, nonostante l'aura terribile di cui è circondata, Baba Jaga è allo stesso tempo temuta e ricercata.
 Nel suo gravoso compito, però, Baba Jaga non è lasciata sola a se stessa, ma possiede molti aiutanti. In primis, troviamo tre cavalieri, suoi fedeli servitori: il Cavaliere Bianco, che rappresenta l'alba luminosa; il Cavaliere Rosso, personificazione del sole; e il Cavaliere Nero, che simboleggia la notte scura. Troviamo inoltre i servi invisibili, che sono un cancello, un cane, un gatto e un albero che la riveriscono nella sua capanna, e tre paia di mani senza corpo, che eseguono gli ordini della strega. Un altro bizzarro individuo al servizio di Baba Jaga è Koshej l'immortale, il quale ebbe in dono dalla vecchia un puledro velocissimo dopo aver custodito le sue giovenche per tre giorni.

 Baba Jaga è, insomma, una figura ambigua dalle mille sfaccettature, in grado di controllare la natura e padrona della conoscenza arcana. E' lo spirito indomito che seleziona chi è veramente degno di accedere alla saggezza perché, in un mondo che si rispetti, anche se si tratta di un mondo fiabesco, la conoscenza se la possono permettere solo i virtuosi.  



Fonti:
- Wikipedia, voce "Baba Jaga";
- Sito internet Il Gazzettino della Magia, articolo "La strega Baba Jaga: la strega venuta dall'Est";
- Sito internet Fiabe e Favole, articolo "Baba Jaga".