martedì 29 gennaio 2013

La Sibilla, profetessa di sventure

 Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Σίβυλλα τί θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω.

 Del resto la Sibilla, a Cuma, l'ho vista anch'io, con questi miei occhi, dondolarsi rinchiusa, dentro un'ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: "Sibilla, che vuoi?", quella rispondeva: "Voglio morire". 


 Lascio che sia questa epigrafe tratta dal Satirycon di Petronio a introdurre l'argomento di oggi. Questa frase è stata ripresa anche da Thomas Stearns Eliot, che l'ha posta proprio all'inizio del suo celebre poema intitolato La terra desolata (The Waste Land, in lingua originale). 
 Ad ogni modo, anche non conoscendo queste due opere, molto probabilmente tanti avranno sentito parlare della famosa Sibilla, l'oracolo che nella mitologia greca e romana emetteva oscuri vaticini. Oggi mi propongo di fare chiarezza su questa misteriosa figura, da sempre simbolo di ambiguità.

La Sibilla dipinta da Michelangelo

Etimologia

 Nella Grecia antica si parlava di Σίβυλλα, che fu tradotto in latino come Sibylla. L'etimologia di questa parola, però, rimane ignota.
 Sappiamo comunque che si tratta del nome di una persona realmente esistita, probabilmente di una delle sibille più antiche, la Sibilla Libica. Pausania ci parla infatti del prologo di una tragedia di Euripide, intitolata Lamia, dove ci sarebbe un gioco di parole tra Sibylla e Libyssa, dove Sibyl non è altro che la lettura da destra a sinistra di Libys.
 Il latino Varrone, d'altra parte, riporta una derivazione popolare del termine tipica del dialetto eolico che, anziché la locuzione tradizionale theoù-boulèn, utilizzava sioùs-boùllan per designare la volontà, la deliberazione di un dio. L'origine dell'espressione eolica è da ricercare nei luoghi di culto pre-ellenici dell'albero sacro.
 Altri storici, infine, ritengono che la parola abbia un'origine latina, derivante proprio da Sibilus. Questo termine contiene la radice Sib/Sif, la quale rimanda onomatopeicamente al soffio, al suono misterioso che proviene da una cavità, oppure al sibilo del serpente (non a caso una delle Sibille, come vedremo più avanti, era detta Pizia o Pitonessa).
 Nonostante il numero elevato di ipotesi sull'etimologia del nome, il vero significato di questa parola rimane avvolto dall'oscurità, come la figura a cui rimanda.

Chi erano le Sibille

 Perfino sull'origine del culto della Sibilla vi sono ipotesi contrastanti. Una di queste ritiene che la Sibilla nacque nell'antro di Delfi tra la fine del IX secolo e la metà del VII in occasione dell'incontro tra Dioniso e Apollo. Il primo contribuì apportando la frenesia e l'estasi passionale della baccante, mentre il secondo offriva il controllo razionale dell'isteria.
 Altri, invece, fanno discendere il culto della Sibilla da due figure importantissime della mitologia greca: Cassandra, sfortunata profetessa figlia del re di Troia Priamo, e Manto, figlia del più celebre indovino Tiresia, da cui aveva ereditato le capacità divinatorie.
 Un'altra possibilità è che la Sibilla sia nata da antichi riti orientali, che col tempo si diffusero rapidamente nel Mediterraneo.

Cassandra, la profetessa troiana

 Sebbene le origini di questa figura non siano chiare, possiamo però dire con certezza che la Sibilla nel mondo classico era una vergine, talvolta raffigurata in giovane età, altre come una vecchia decrepita, che in seguito all'ispirazione e alla possessione di una divinità era in grado di rivelare il futuro. 
 Ma perché questi poteri straordinari erano attribuiti a una figura femminile? 
Il motivo è che già nell'antichità si riconosceva alla donna una maggiore capacità ricettiva, che le consentiva di entrare in contatto più facilmente con una divinità. La sensibilità tipica delle donne, dunque, faceva in modo che esse potessero essere possedute da un nume, che esprimeva la propria volontà attraverso queste figure femminili.

 Verginità e longevità erano altri due tratti distintivi della Sibilla. Il concetto della verginità della Sibilla si trova ripetutamente negli autori classici (Aristotele, Virgilio, Ovidio, Marziale) e anche in alcuni autori cristiani (San Gerolamo). Questo perché una divinità non poteva far altro che scegliersi una sposa vergine. Questa unione divina non intaccava in alcun modo la verginità della fanciulla e nemmeno le precludeva la gravidanza. Infatti, quando la Sibilla si univa al dio riceveva il pneuma, un afflato amoroso che la rendeva appunto "gravida" dell'oracolo del quale si liberava di volta in volta. Di solito il dio che si univa alla Sibilla era Apollo, famoso per le sue facoltà di preveggenza, ma spesso si parla anche di Dioniso, dio dell'ebbrezza, il cui culto era caratterizzato dalla possessione demonica, la stessa che probabilmente diede origine alla Pizia di Delfi. Tuttavia, col tempo la facoltà divinatoria della Sibilla non venne più collegata all'unione matrimoniale con la divinità, ma venne attribuita direttamente alla sacerdotessa, che era in grado di profetizzare anche senza l'intervento del dio.

 Un altro punto che trova concordi molti autori, è la longevità della Sibilla. Ovidio, nelle Metamorfosi, la raffigura molto vecchia, ma afferma che deve vivere ancora trecento anni e, anche quando sarà morta, la sua voce sopravvivrà. L'eterno vaticinare della voce della Sibilla è confermato anche da Servio e da Plutarco. Flegetonte di Tralle afferma che la Sibilla sarebbe vissuta "poco meno di mille anni", mentre Varrone, nel De re rustica, arriva addirittura a considerarla immortale.
 Una vita così lunga, però, non necessariamente è una cosa positiva. L'epigrafe del Satirycon di Petronio citata all'inizio di questo articolo, infatti, mostra la sofferenza della Sibilla che, stanca della propria longevità, desiderava la morte. Il corpo della Sibilla non rimaneva immune al tempo che passava, ed era divenuto talmente fragile per la vecchiaia, che la povera sventurata avrebbe preferito la morte. 

 Bisogna sottolineare che i vaticini della Sibilla erano quasi sempre nefasti. Questo perché la maggiore preoccupazione del popolo era che il futuro riservasse delle sciagure, quindi era sempre pronto ad ascoltare chi poteva prevederle e indicare il modo per evitarle. La Cassandra di Eschilo rappresenta molto bene la tipologia di questo oracolo, anche se, al contrario di altre profetesse, non veniva mai ascoltata dal popolo. Anche Eraclito sottolinea il motivo della Sibilla come profetessa di sciagure:

La Sibilla con bocca invasata pronunzia cose tristi, senza ornamento né profumi e attraversa con la sua voce migliaia d'anni per opera del nume.

 Dobbiamo precisare, inoltre, che nel mondo antico non esisteva una sola Sibilla, ma molte, divise a seconda dell'area geografica di provenienza. Varrone fissa il loro numero a dieci e le classifica nel modo seguente: 
- Persica; 
- Libica; 
- Delfica;
- Cimmeria;
- Eritrea;
- Samia;
- Cumana;
- Ellespontica;
- Frigia;
- Tiburtina. 

 Una classificazione dei tempi moderni operata da Bouché-Leclerq, invece, si basa sui luoghi dove si è manifestato il culto della Sibilla. Avremo quindi un gruppo greco-ionico, uno greco-italico e uno orientale. In tutte queste specificazioni locali, comunque, le manifestazioni della Sibilla sono associate a un antro o a una fonte sacra. 
 Tra queste, le più famose sono sicuramente la Sibilla Cumana e la Sibilla di Delfi, detta Pizia, delle quali ora mi accingo a parlare.

La Sibilla Cumana

 Questa è la Sibilla a cui fa riferimento l'epigrafe di Petronio riportata anche all'inizio della Waste Land di Eliot. Si tratta senza dubbio di una delle Sibille più famose e importanti della mitologia e della letteratura. La Sibilla Cumana era la somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo e di Ecate, una dea lunare pre-ellenica, che esercitava la facoltà divinatoria a Cuma, una città della Magna Grecia, nel pressi del lago d'Averno. Lì si trovava una caverna, chiamata "antro della Sibilla", dove la profetessa trascriveva le predizioni in esametri, su foglie di palma, sotto ispirazione divina. Le foglie, una volta finito il vaticinio, venivano scompigliate dalle correnti che soffiavano dalle numerose aperture dell'antro, che rendevano così i responsi meno comprensibili, "sibillini", appunto. 

L'antro della Sibilla Cumana

 La leggenda racconta che Apollo fosse innamorato di questa donna e che le avesse offerto qualsiasi cosa lei volesse pur di averla come sua sacerdotessa. La donna chiese in dono l'immortalità, ma scordò di chiedere anche la giovinezza eterna, condannando così il proprio corpo a una progressiva e lenta consumazione. Quando assunse le dimensioni di una cicala, la Sibilla venne posta in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve. La sua voce, però, rimase e continuò a vaticinare. Si dice anche che Apollo le avesse dato la possibilità di acquisire l'eterna giovinezza, a patto che diventasse completamente sua. Ma la Sibilla rifiutò, poiché ritenne più importante preservare la propria castità.

 L'Eneide di Virgilio è l'opera che, più di tutte, ha contribuito a rendere celebre la Sibilla Cumana. Nel libro VI, Virgilio la chiama "Deifobe di Glauco" e "Amphrysia", dal nome del fiume della Tessaglia Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto. Nell'Eneide, la Sibilla Cumana non è solo una veggente, ma è anche la guida di Enea nell'oltretomba. L'aria sinistra e cupa che Virgilio crea al momento di descrivere l'antro della sacerdotessa esprime bene l'atmosfera di mistero e di timore che suscitava la Sibilla.

 Successivamente questa figura venne ripresa anche da Ovidio, che nelle sue Metamorfosi racconta come la Sibilla Cumana avesse chiesto ad Apollo di vivere tanti anni quanti erano i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano. E' la stessa sacerdotessa a narrare la propria storia a Enea, non mancando di sottolineare che aveva dimenticato di chiedere anche l'eterna giovinezza. Così, la profetessa era destinata a un invecchiamento lunghissimo nel tempo, non privo delle sofferenze dovute all'età.

La Pizia 

 La Pizia o Pitonessa era l'oracolo più conosciuto dell'antichità, che dava i responsi sul futuro da parte di Apollo. Tale divinità, secondo la mitologia greca, ricoprì un ruolo importantissimo nella nascita di questo centro di culto.

 Prima di ospitare l'oracolo, infatti, Delfi ospitava Pitone, un serpente tanto enorme quanto mostruoso, che viveva in una grotta sul monte Parnaso. Costui fu mandato da Era per insidiare Leto al momento del parto, poiché la donna era la prova vivente del tradimento di Zeus. Nonostante le difficoltà, Leto partorì due gemelli divini, Artemide e Apollo. Quando quest'ultimo crebbe e venne a sapere che il nemico di sua madre abitava sulle pendici del Parnaso, vi si precipitò immediatamente. Apollo gettò all'interno della grotta una torcia accesa per far uscire il serpente e, quando Pitone fu alla sua portata, il dio lo trafisse con le sue frecce. Da allora, Apollo fece della grotta dove viveva Pitone il proprio oracolo, che prese il nome proprio da un appellativo del dio: Pizio. Inoltre, si dice che Apollo fondò i giochi pitici proprio per commemorare quella vittoria contro il mostro, nemico di sua madre.

 Da quel momento in poi, l'antro alle pendici del Parnaso venne occupato da una sacerdotessa che prediceva il futuro grazie alla fuoriuscita di vapori estatici, provenienti esattamente dalla voragine naturale in cui elle risiedeva. La Pizia, prima di profetizzare, si sedeva su un tripode, emblema di Apollo, respirava i vapori, raggiungendo così l'estasi, e comunicava il responso a un sacerdote assistente, detto Profeta. Questi era incaricato di interpretare e trasmettere il vaticinio al postulante.

La Pizia, sacerdotessa di Delfi

 Il ruolo della Pizia poteva essere ricoperto solo da giovani vergini appartenenti alla nobiltà, le quali dovevano mantenere la propria castità per tutta la vita. Ma chi riusciva a rivestire una tale posizione, godeva di un prestigio e di una condizione sociale inusualmente elevati per una donna, all'epoca. Ciò era dovuto non solo alla grande fama dell'oracolo di Delfi, situato in un punto che era considerato l'omphalos, l'ombelico del mondo antico, ma anche al fatto che per consultare la Pizia era richiesta un'onerosa offerta in denaro, oltre a un sacrificio preparatorio, che aveva luogo prima dell'incontro con la veggente.



 In un mondo maschilista, la Sibilla era una delle poche figure femminili che godeva di enormi privilegi e che era degna di rispetto. Non un uomo, ma una donna era la più grande mediatrice tra gli dèi e la gente comune. Poco importava che dalla sua bocca uscissero perlopiù sventure e presagi infausti. Anzi, a eccezione di Cassandra, queste profetesse venivano ascoltate con attenzione proprio perché potevano mettere in guardia le persone dai pericoli.

 Questa usanza oggi forse si è un po' persa. Si crede agli inutili allarmismi, ai guaritori, ai maghi, ai furfanti peggiori, ma non a chi, per il nostro bene, ci rivela una verità scomoda. Cassandra, che costituiva un'eccezione per la sua epoca, è una moda nella nostra. Ormai farsi portatori di verità scomode e non essere creduti non è più una maledizione di Apollo, ma una triste realtà.



Fonti:
- Wikipedia, voce "Sibilla";
- Wikipedia, voce "Sibilla Cumana";
- Wikipedia, voce "Pizia";
- Mitologia greca...e dintorni, voce "Pitia";
 - Mitologia greca...e dintorni, voce "Pitone";
- Enciclopedia italiana (1936) Treccani, voce "Sibilla";
- MARRONE, Paolo, "Il mito della Sibilla"; 
- Sibylla.it, "Origine del nome";
- Mitologia Greca, "Apollo, il serpente Pitone e l'oracolo di Delfi".



lunedì 14 gennaio 2013

La Gioebia

 Dopo tanti viaggi intorno al mondo, dopo aver scoperto usanze, leggende e riti di culture lontane è ora tempo di tornare nella terra d'origine. Sebbene i Paesi esotici esercitino sempre un'enorme attrattiva (per la serie "l'erba del vicino è sempre più verde"), anche la nostra Italia è piena di miti, di riti folkloristici che magari nemmeno conosciamo. 
 Per cui oggi voglio concentrarmi su una ricorrenza tipica della mia zona, la Lombardia, e del Piemonte. I miei nonni mi hanno ricordato che tra poco ci sarà una festività chiamata Gioebia (si pronuncia Giöbia, qui nel Varesotto). 
 Da noi si festeggia praticamente ogni anno, ma puntualmente non mi ricordo mai in cosa consiste. Allora, grazie allo spunto dato dai miei nonni, che vogliono anche loro scoprire di più riguardo all'origine di questa usanza, ho fatto delle ricerche e ora mi sento pronta per parlare di questa famosa Gioebia.

Origini

 Iniziamo col dire che la Gioebia assume dei nomi diversi a seconda dell'area in cui ci si trova. In Piemonte si dice Giobbia, nella Brianza e nella provincia di Como si parla di Giübiana o Gibiana, mentre altre varianti si discostano ancora di più dal nome originario, come Zobiana o ancora Giünee dalle parti di Plesio.
 Tutte queste denominazioni, però, vogliono indicare il nome del giorno della settimana in cui cade questa ricorrenza: il giovedì, che in dialetto piemontese si dice proprio giobbia. Infatti, la Gioebia si celebra l'ultimo giovedì del mese di gennaio, che quest'anno corrisponde al 31 gennaio.
 
 Le origini della Gioebia, però, rimangono avvolte nel mistero. Alcuni la collegano con il culto di Giunone (da cui deriverebbe l'aggettivo Joviana) o dello stesso Giove (da cui ha origine l'aggettivo Giovia, quindi Giobia), in onore del quale i contadini celebravano le feste di inizio anno per propiziare le forze della natura, ai fini di ottenere un buon raccolto.
 Secondo altri, la Gioebia fa riferimento ai tempi dell'Inquisizione, quando si dava la caccia alle streghe. Altre ipotesi avanzate fanno risalire questa festa alla tradizione celtica e druidica, che aveva l'usanza di bruciare fantocci per ottenere il favore degli dèi in battaglia o nella semina del raccolto. Un'altra scuola di pensiero evidenzia le somiglianze tra la pratica della Gioebia e quella dei primi sacerdoti cristiani, che bruciavano i simulacri delle divinità pagane.

 Nonostante si ignori il significato originario di questa festa, si è certi che il termine Giobia o Giubiana si riferisce a una strega. Si tratta di una personificazione dell'inverno e del gelo, che i contadini volevano scacciare bruciando su un falò il fantoccio raffigurante la Giubiana.
 Quindi, la festa della Gioebia consiste nel bruciare dei fantocci dalle sembianze stregonesche su un falò, preparato appositamente per la sera dell'ultimo giovedì di gennaio. Questo gesto può essere corredato da canti, balli e soprattutto dal consumo di piatti tradizionali, come il risotto e la salsiccia, il tutto innaffiato da vin brulé.
 A seconda della zona, vi sono leggende diverse sul personaggio della Giubiana e di conseguenza anche delle peculiarità nella celebrazione della ricorrenza.

Il fantoccio della Giubiana viene bruciato

La leggenda della Giubiana

 Nei boschi della Lombardia e del Piemonte viveva la Giubiana, una vecchia strega, magra e dalle gambe lunghe, che indossava delle calze rosse. La Giubiana era malvagia e dispettosa, perché spaventava chiunque si inoltrasse nel bosco e, l'ultimo giovedì di gennaio, andava alla ricerca di bambini per mangiarseli.
 Ma una volta una mamma, che non voleva che il proprio bambino diventasse una preda della spaventosa Giubiana, tese una trappola alla strega. Cucinò in un pentolone del risotto allo zafferano con la luganega (una salsiccia) e lo mise sul davanzale della finestra. Il profumino squisito che emanava quel bel piatto attrasse la Giubiana, che mangiò tutto il risotto senza accorgersi che stava sorgendo il sole. La luce mattutina, fatale per le streghe, uccise la Giubiana e il bambino si salvò.

 Un'altra versione della leggenda narra che una madre riempì una bambola di coltelli e forbici e la mise nel letto della figlia, per ingannare la Giubiana. Così, quando la Giubiana arrivò per divorare la bambina, al suo posto ingoiò la bambola. Quando la madre sentì l'urlo agghiacciante della strega, si precipitò nella camera della bambina, e trovò il corpo della vecchia ridotto a brandelli dalle lame delle forbici e dai coltelli.

Usanze del basso Varesotto

 In questa zona si parla di Giöbia e, come già anticipato, vi è l'usanza di bruciare un pupazzo dalle fattezze di una donna anziana per scacciare le forze maligne dell'inverno e propiziare l'avvento della primavera. I cibi che accompagnano il falò variano a seconda del paese: a Busto Arsizio si offrono polenta e brüscit, a Gallarate si mangia risotto e lügànega, mentre a Saronno e dintorni, proprio dove vivo, la tradizione contadina consiglia di mangiare un piatto di lenticchie con il cotechino, che serviranno poi in estate a combattere i fastidiosi insetti dei campi (mosche e zanzare su tutti).

Cantù e  Mariano Comense

 Qui per la ricorrenza si usa il termine Giubiana, ma il rituale del falò per bruciare il fantoccio è simile a quello descritto in precedenza.
 A Cantù (CO), però, non si brucia il pupazzo di una vecchia, ma di una giovane bellissima, che ricorda una castellana che tradì la città nella guerra tra Milano e Como del XII secolo. A quei tempi, Cantù era alleata di Milano e conobbe una pesante sconfitta inflitta dai lariani. Nonostante ciò, Milano vinse la guerra conquistando Como e, memore della condotta delle castellana traditrice, la condannò al rogo. Questa esecuzione viene ricordata ogni anno dalla città di Cantù, che l'ultimo giovedì di gennaio organizza un vero e proprio corteo in costume. Prima della parata, un manichino di donna viene esposto per qualche giorno al ludibrio generale in una piazza. Questo manichino poi, durante il corteo, viene trasportato su un carro, scortato da armigeri, frati e un boia, fino a raggiungere il municipio e la piazza centrale. Lì, dopo aver letto la condanna che la Giubiana deve scontare, viene appiccato il rogo, dove il fantoccio della donna traditrice viene bruciato.
 Bisogna però precisare che si tratta solo di una leggenda, poiché non vi sono prove che attestino la veridicità storica di questa vicenda.

 Una leggenda simile si racconta anche dalle parti di Mariano Comense (CO). Secondo questa versione, un giovedì di gennaio di circa settecento anni fa bussò alle porte del borgo di Canturio una donna talmente bella, che venne scambiata da Padre Lorenzo per la Madonna. La fanciulla, approfittando dell'ingenuità del religioso, lo ipnotizzò e gli ordinò di consegnarle le chiavi della città. La donna potè così aprire le porte ai Visconti, i signori di Milano. In questo modo i milanesi, che avevano già conquistato Marliano (l'odierna Mariano Comense), si impadronirono anche di Canturio. In quanto alla ragazza misteriosa, non si ebbero più notizie e non fu mai fatta chiarezza sulla sua vera identità. Per commemorare questo sfortunato evento, anche a Mariano Comense l'ultimo giovedì di gennaio si brucia su un falò un fantoccio raffigurante una donna, allo scopo di scacciare la sfortuna e di assicurarsi un futuro migliore. 

Canzo e Casorate Sempione

 La celebrazione della Giubiana a Canzo (CO) è particolarmete articolata, perché al processo della donna (immaginaria) in dialetto canzese intervengono numerosi personaggi folcloristici:
- i Regiuu, gli anziani autorevoli del paese che pronunciano la sentenza;
- la fata acquatica Anguana;   
- l'Òmm Selvadech ("Uomo Selvatico"), un personaggio della mitologia alpina.
- l'Urzu ("Orso"), che simboleggia la forza istintiva da domare;
- il Casciadur ("Cacciatore"), che doma e fa ballare l'orso; 
- il Bòja ("Boia"), che rappresenta la condanna del male;
- i Cilòstar ("coloro che reggono i candelabri"), sono persone incappucciate, che incarnano la luce vittoriosa sul Male;
- i Bunn e i Gramm ("Buoni e Malvagi"), interpretati da bambini vestiti di bianco e di nero, con il volto tinto, che suonano le campanelle e fanno rumore con la latta per scacciare il Male;
-l'Aucatt di caus pèrs ("Avvocato delle cause perse"), venuto dal foro di Milano per difendere la Giubiana;
- l'indovino Barbanégra;
- gli Scarenèj, i campagnoli della vicina Scarenna, lagata con i contadini canzesi;
- le Strij piscinitt, delle streghe che incutono timore ai bambini;
- la Cumàr de la cuntrada, che legge il testamento della Giubiana;
- il Diaul ("Diavolo"), che canta un'ode in onore della Giubiana;
- i Pumpiér ("Pompieri"), che sfilano in bicicletta;
- il Pastùr ("Pastore");
- i Buschiröö ("Boscaioli");
- il Carétt di paisàn ("carretto dei contadini");
- il Tràin, una grande slitta con le fascine. 
Ci possono essere anche altri personaggi che non ho menzionato, oltre ad addobbi molto suggestivi. 

 A Casorate Sempione (VA) al falò dove si brucia la Gioebia segue un'usanza molto particolare, chiamata la puscena di dónn, cioè il dopo cena delle donne (dal latino post cenam). Le donne casoratesi festeggiano così la gioebia di dónn, un ritrovo serale tra le donne dei cortili di una volta in cui si raccontano storie, si mangia, si beve, si canta e si balla, senza che siano presenti mariti e figli.
 Pare che durante una di queste occasioni gli uomini, esclusi dalla festa, fecero uno scherzo alle donne, intente a festeggiare con frittelle e vino dolce. I mariti calarono una gamba (probabilmente di animale) dal soffitto del luogo dove erano riunite le donne, intonando un canto con voce cupa e roca:  

Dón, dón, andé a durmì, ghi giald ‘i œcc, i da murì, se vurì mia, che Dìu la manda, guardé in aria ca dúnda la gamba

[Donne, donne, andate a dormire, avete gialli gli occhi dovete morire, se non volete che Dio vi faccia morire, guardate in alto che dondola la gamba] 

 Le donne, terrorizzate, scapparono a gambe levate, lasciando agli uomini il buon cibo che avevano preparato per la gioebia di dónn


 Quella della Gioebia, come si è visto, è un'usanza molto particolare del Nord e testimonia le nostre radici. Per questo, voglio dedicare questo articolo ai miei nonni, nonno Armando, nonna Carla e nonna Giuseppina (chiamata "Pina") e a tutti gli anziani, che sono i custodi importantissimi della nostra tradizione. Anche se ormai ci avviamo alla multietnicità, non dobbiamo dimenticarci chi siamo e da quale realtà proveniamo. Se annulliamo la nostra identità per paura di offendere gli altri, non ci sarà mai un dialogo tra culture, ma solo un monologo. Solo se c'è uno scambio reciproco tra culture potremo arricchirci veramente e sperare di intraprendere il cammino verso un'autentica integrazione. Solo ricordando la nostra identità, le nostre origini, potremo partecipare a questo scambio di culture. Come dice "la Teresa" dei Legnanesi: "un paese che non ha memoria, non ha storia".


Fonti:
- Wikipedia, voce "Giubiana";
- sito Valleolona.com, articolo "Tradizioni e leggende: la Gioebia" a cura di Giuseppe Leo.

mercoledì 9 gennaio 2013

Il terribile mostro degli abissi: il Kraken

 Passate le festività del periodo natalizio, purtroppo (ma anche per fortuna!) si torna alla normale routine. Quindi, con l'anno nuovo, eccomi ad aggiornare il blog con altri miti e leggende.

 Oggi voglio fare rotta verso il nord Europa. E non a caso utilizzo l'espressione "fare rotta"; infatti, la creatura mitologica protagonista di questo post sarà proprio un abitante del mare, le cui origini sono da ricercare nella mitologia nordica: il Kraken.

Etimologia

Il nome Kraken deriva dal norvegese krake, termine che indica un animale malsano o aberrante. Lo stesso significato si trova anche nelle parole inglesi crank e crook, dalla fonetica molto simile a quella norvegese. Sempre nei Paesi anglofoni, possiamo ricordare il verbo to crack, che fa riferimento a una rottura. Nell'area teutonica, invece, esiste proprio l'omografo del norvegese krake, derivante da una radice proto-indoeuropea, che rimanda in maniera specifica a una piovra.

Il Kraken distrugge una nave


Le origini

 Il Kraken viene alla luce nei testi mitologici norreni intitolati Saga di Örvar-Odds e Konungs skuggsjá (1250), dove però viene chiamato Hafgufa. Si tratta di un mostro marino talmente grande che quando si trova in superficie, a pelo dell'acqua, può essere scambiato addirittura per un'isola. Tale caratteristica verrà sviluppata in maniera più approfondita nel Settecento, quando la figura del Kraken raggiungerà l'apice della propria fortuna. All'inizio dunque il Kraken incarna il motivo della balena-isola, che compare in altri miti con il nome di Zaratan.

 Il motivo per cui questa creatura è stata ideata nelle regioni nordiche si può riscontrare nelle somiglianze tra le caratteristiche dell'antenato del Kraken e l'attività vulcanica sottomarina in Islanda. Gli spruzzi d'acqua dalle narici del mostro, le correnti e le ondate che esso provocava coi suoi spostamenti possono essere riconoscibili anche come indizi della presenza di vulcani sottomarini, la cui esistenza era ignota all'epoca.

Il Kraken visto come una balena-isola

Il Kraken nel Settecento

 Del Kraken si occupa addirittura Carl von Linné, conosciuto in Italia come Carlo Linneo, che nel suo Systema Naturae (1735) lo classifica tra i cefalopodi con l'appellativo di Microcosmus marinus. In seguito, il celebre studioso non parlerà più di quest'essere, ma il solo fatto che anche un uomo di scienza come Linneo si sia interessato a questa creatura mitologica la dice lunga sull'importanza del Kraken nel XVIII secolo.

 La consacrazione alla fama di questo terribile mostro marino si ha però con la Storia naturale della Norvegia, del vescovo danese Erik Pontoppidan, che costituisce il riferimento principale del Settecento su questa creatura. Costui riprende il motivo originario della balena-isola, sostenendo che molte isole raffigurate sulle carte geografiche corrispondessero in realtà alle emersioni periodiche del Kraken.
 Bisogna dire però che Pontoppidan non descrive il Kraken come una bestia ostile, perché i disagi che questo causa con i suoi spostamenti (i gorghi, le forti correnti e le onde alte) non sembrerebbero intenzionali, o meglio, il religioso non lo specifica. Ciononostante, il vescovo precisa che se solo avesse voluto, questa bestia avrebbe potuto trascinare negli abissi addirittura la più potente nave da guerra. 

 Dopo il vescovo Pontoppidan, è lo svedese Jacob Wallenberg a parlare del Kraken nell'opera Mio figlio sulla galera (1781):

Il kraken, anche detto pesce-granchio, [...] non è più grande della larghezza della nostra Öland [ovvero meno di 16 km] [...] Se ne sta sul fondo del mare, sempre circondato da molti piccoli pesci che gli servono come cibo e ricevono cibo da esso; perché il suo pasto [...] dura non meno di tre mesi, e altri tre servono per la digestione. In seguito, i suoi escrementi nutrono un esercito di pesci più piccoli, e per questo motivo i pescatori gettano i piombi dove esso giace [...] Gradualmente, il kraken sale alla superficie, e quando si trova a dodici o dieci braccia è bene che le barche si allontanino, perché di lì a poco esso emerge come un'isola, spruzzando acqua dalle sue terribili narici e creando anelli di onde attorno a sé, fino a distanze di molte miglia. 


Con Wallenberg il Kraken assume così le sembianze di un pesce-granchio, non più di una balena-isola. 

 Tuttavia, delle modifiche consistenti vengono apportate al Kraken verso fine secolo. Nonostante Pontoppidan non avesse mai parlato del Kraken come di una creatura malvagia, nel tardo Settecento prende piede il mito dell'aggressività del Kraken, con numerose varianti. Alcune leggende dicono che il Kraken affondasse solo le navi di uomini corrotti (come i pirati), risparmiando le imbarcazioni dei giusti.

 Un altro cambiamento nell'immaginario collettivo riguardante questo mostro si può riscontrare nell'aspetto. Il Kraken alla fine del XVIII secolo smette i panni del pesce-granchio e della balena per vestire quelli della piovra o, in casi meno frequenti, del calamaro. Ciò che rimane costante è la grandezza dell'animale, che rimane considerevole e terrificante. Molto probabilmente, questo cambiamento fisico è dovuto a reali avvistamenti di calamari giganti proprio in quel periodo.

Il Kraken nei panni di un calamaro gigante


 Sicuramente il Kraken è uno dei mostri marini più famosi e la sua figura oggi è tornata popolare grazie alle apparizioni in film come Pirati dei Caraibi e Scontro tra Titani. Ciò che a parer mio è affascinante in tutto questo è come l'uomo tenti di trovare sempre delle spiegazioni per degli eventi naturali che non conosce. Ecco dunque che i vulcani sottomarini e i calamari giganti diventano dei temibili mostri, che attentano alla vita dei marinai.
 Tutti queste creature spaventose incarnavano l'ambiguità del mare, che era sì una fonte di ricchezza, ma anche un elemento imprevedibile e pericoloso. In fondo, l'uomo rimane sempre piccolo nei confronti della natura. Basta un attimo, ed ecco che il mare si prende tutto. Anche senza l'aiuto del Kraken.


Fonti:
- Wikipedia, voce "Kraken";
- La tela nera, articolo "Kraken" di Gianluca Santini.