sabato 15 novembre 2014

C'era una volta l'America - Cosmologia maya

  Non ho mai fatto mistero di avere un debole per le civiltà mesoamericane. Anche per me l'incontro con l'America ha rappresentato la scoperta di un Nuovo Mondo, ma non nel senso attuale del termine. Non mi affascina il sogno americano, bensì ciò che esisteva prima che Cristoforo Colombo sbarcasse a San Salvador.
 Purtroppo conosciamo le conseguenze terribili del confronto tra Europa e America dopo il 1492. Ciò che invece non conosciamo è la ricchezza culturale delle popolazioni che prima di Colombo regnavano sul continente americano. Nei libri scolastici di storia Maya, Aztechi e Incas sono liquidati in pochi paragrafi e sono citati solo in quanto popolazioni sottomesse dai conquistadores spagnoli. Eppure dietro a questi nomi c'è un mondo che per noi europei rimane tuttora sconosciuto. 
 Non si tratta di un mondo rose e fiori, né di un mondo di santi innocenti. Ma è un'altra visione della natura e dell'universo che ci circonda che merita di essere conosciuta senza pregiudizi. Ecco perché oggi parlerò di come gli antichi Maya concepivano l'universo.

 Il mondo maya

 Le popolazioni mesoamericane possiedono un sostrato religioso molto simile. Perciò, il modello dell'universo concepito dai Maya era condiviso anche da altri popoli che vivevano in luoghi limitrofi.

 Una delle più importanti fonti maya che ci ha permesso di ricostruire la struttura del cosmo è il Chilam Balam di Chumayel, il quale ci informa che il mondo era diviso in tre grandi compartimenti: cielo, terra e inframondo, corrispondente agli inferi di varie tradizioni mitologiche europee. La terra costituiva una base quadrangolare su cui si sviluppavano due piramidi a gradoni, con vertici opposti: il cielo contava tredici scalini, sei ascendenti a est e sei discendenti a ovest, con il settimo alla sommità della piramide, in modo che il primo e il tredicesimo gradino, il secondo e il dodicesimo, ecc. si trovavano sullo stesso livello; l’inframondo, invece, si costruiva su nove gradini, quattro discendenti e quattro ascendenti disposti in modo speculare rispetto alla piramide celeste. Ogni gradino era governato da una divinità celeste o sotterranea, secondo il livello in cui si trovava il gradino; alla sommità della piramide celeste risiedeva il Canhel[1], ovvero il principio vitale del cosmo, che coincideva con il dio creatore[2], mentre il nono livello dell’inframondo era governato dalle divinità della morte.       

 Per quanto riguarda la faccia della terra, sia Maya, sia altre popolazioni messicane credevano che essa fosse posta sul dorso di un caimano o di un coccodrillo, che galleggiava a sua volta in un immenso bacino acquatico. 



 Le quattro direzioni 
 Un’altra caratteristica peculiare della terra maya è che, oltre a costituire la base quadrata su cui si sviluppavano la piramide celeste e dell’inframondo, era divisa in quattro settori. Le linee di divisione indicavano la traiettoria che compiva il disco solare nel corso dell’anno, che secondo i Maya era circolare. I punti più importanti della rotta del sole erano i solstizi e gli equinozi, che determinavano sia la partizione della terra nei quattro settori, sia la misurazione del tempo, concepito in maniera ciclica proprio perché rispecchiava la forma dell’orbita percorsa dal sole. La stretta connessione tra spazio e tempo tipica della cultura maya è dimostrata proprio dalla concezione quadrangolare e quadripartita della terra: i vertici di questo quadrato corrispondono alle direzioni di nordest, nordovest, sudest e sudovest, che non corrispondono solo a punti dello spazio, ma anche alle coordinate temporali dei solstizi e degli equinozi. 


 Ogni settore era poi contraddistinto da un colore simbolico. LEst era associato al rosso. Questa era la direzione principale per i Maya, perché era il punto in cui sorgeva il sole, fenomeno che simboleggiava la forza vitale. Era il punto con cui si identificava il dio sole e il pianeta Venere, nella veste della Stella del mattino. Il colore rosso esaltava queste caratteristiche, poiché richiamava il sole, il fuoco, il mais arrostito, la linfa dell’albero sacro, chiamato ceiba, e il sangue, che insieme agli altri elementi era simbolo di forza vitale. Quest’ultimo, in particolare, rivestiva un ruolo centrale nei sacrifici e negli autosacrifici, in cui veniva versato molto sangue per nutrire la terra e le divinità.

 L’Ovest si identificava con il nero. Se l’Est rappresentava la vita e il sole nascente, l’Ovest simboleggiava al contrario la morte, la guerra e il mondo dell’oltretomba. Questa è la direzione in cui il sole tramonta e si accinge a percorrere il suo cammino lungo le viscere della terra, sotto forma di astro notturno, simboleggiato dal giaguaro. Il nero era il colore che meglio  rappresentava le idee di morte, di notte e di oscurità, che però non necessariamente erano viste come aspetti negativi dell’esistenza. Il buio della notte e soprattutto dei pozzi profondi di acqua torbida dove venivano perpetrati i sacrifici umani, detti cenotes, erano dei mezzi per avvicinarsi agli dèi. Molti sacrifici erano infatti celebrati di notte e si riteneva che chi riusciva a sopravvivere dopo essere stato gettato in un cenote fosse in grado di pronunciare vaticini. Gli Aztechi, diversamente dai Maya, associavano all’Ovest il colore bianco e una delle divinità più importanti: Quetzalcoatl.

  Il Sud era indicato con il giallo. Vale la pena evidenziare che, a differenza della cartografia attuale, il punto cardinale che si trovava più in alto nel mondo maya era l’Est, alla cui destra era di conseguenza collocato il Sud. Come l’Est, anche il Sud veicolava una simbologia legata alla forza e alla vita, enfatizzata dal colore corrispondente. Il giallo è infatti il colore del sole, del fondo del manto del giaguaro e soprattutto del mais maturo. Questo cereale era la principale fonte di sostentamento per i popoli mesoamericani, che gli attribuivano degli aspetti divini. Nella religione maya il mais era protetto da un nume tutelare e venivano svolti diversi rituali e sacrifici per propiziarsi la fertilità del terreno. Nella simbologia del Sud e del giallo si ritrova anche il giaguaro, simbolo del sole nel suo cammino notturno. Gli Aztechi, invece, riservavano al Sud il colore azzurro e il patrocinio di Huitzilopochtli, dio del sole, della guerra e di Tenochtitlán.

  Il Nord, infine, si accompagnava al bianco. Era il punto cardinale più lontano, la dimora della Stella Polare, intorno a cui ruotava l’intera sfera celeste. Da qui arrivavano le preziose piogge che fecondavano il terreno e rendevano possibile la crescita dei raccolti. Il bianco era un colore che, sia presso i Maya, sia presso gli Aztechi, era segno di regalità, purezza e spiritualità. Il bianco appariva anche come aggettivo in corrispondenza di alcuni luoghi, come “casa bianca”, “montagna bianca”, aventi una precisa funzione cultuale e una connotazione positiva, in contrasto con altri luoghi “neri”; le “acque bianche”, chiare, erano utilizzate per le abluzioni purificatrici, mentre quelle torbide dei cenotes, come abbiamo visto, conducevano alla morte. Un luogo molto particolare identificato con questo colore era la “Strada bianca”, il nome con cui i Maya chiamavano la Via Lattea e che trasmisero anche agli Aztechi. Questi associarono la Via Lattea al dio Mixcoatl, il “Serpente di nuvole”. Secondo un’ipotesi non condivisa dagli studiosi, i Maya credevano che la Via Lattea fosse la strada per Xibalbá, l’inframondo.

 A ciascuno di questi quattro settori corrispondeva una ceiba (l’albero del cotone selvatico), sulla quale era appollaiato un volatile, un tipo preciso di mais, di fagiolo e di altra flora e fauna, tutti dello stesso colore della direzione che indicavano. Sempre nei quattro punti cardinali, erano ubicati i quattro Bacab, delle divinità antropomorfe che erano incaricate di sostenere il mondo sulle proprie spalle. Questa quadruplicità non si limitava solo al livello terrestre, ma si estendeva sia alla piramide celeste, sia alla piramide sotterranea, di modo che ogni livello delle piramidi sia di quattro colori diversi. Anche le divinità governatrici dei vari livelli delle piramidi a gradoni, quindi, sono nello stesso tempo uno e quattro; per esempio Chac, dio della pioggia, è presente nelle varianti dei quattro colori: rosso, bianco, nero e giallo.


 Il centro del mondo

  Oltre a queste quattro direzioni, ve ne era un’altra fondamentale: il Centro del mondo, che costituiva la quinta direzione. Il Centro del mondo collegava tutte e tre le zone cosmiche (cielo, terra e inframondo) grazie a una grande ceiba, che affondava le radici nell’inframondo e protendeva i rami fino al cielo. Come nella mitologia germanica, dunque, anche nella tradizione maya ritroviamo il motivo dell’albero come asse del mondo, che permette la comunicazione e il passaggio attraverso le zone cosmiche: le anime dei defunti, per raggiungere Xibalbá, l’oltretomba maya, scivolavano lungo la linfa rossa della ceiba e le divinità, per scendere sulla terra o salire al cielo, si arrampicavano sui suoi lunghi rami. Ai due estremi di questa ceiba erano collocati il dio supremo del cielo, il Canhel, e il dio della morte dell’ultimo livello dell’inframondo, i due principi opposti che garantiscono l’equilibrio e l’armonia universale.
 Anche il Centro possedeva il proprio colore caratteristico: si trattava del blu e del verde, probabilmente un’unione tra i due, dato che i Maya avevano un’unica parola per definire questi due colori (Yax, in yucateco). Questa mescolanza tra blu e verde era una tonalità molto particolare, che si poteva ottenere solo mescolando l’argilla e il muschio presenti nel territorio maya. Per questo, ancora oggi il nome di questa gradazione è “blu maya”. Questo era il colore che più di tutti veniva utilizzato nei sacrifici: prima di perpetrare i sacrifici umani, i sacerdoti e le vittime si cospargevano di un unguento azzurro; nei mesi dedicati al dio della pioggia Chac, chiamati Yax e Mol, si dipingevano uomini e oggetti con questa tinta, che probabilmente possedeva un carattere purificatore. Il blu maya rimandava inoltre all’elemento acquatico, emblema della forza vitale e anche della purificazione. L’importanza di questo colore era testimoniata anche dalla presenza massiccia di oggetti di giada, pietra dura che presso i Maya era più preziosa dell’oro proprio in virtù del rimando spirituale all’acqua e al suo valore purificatore.



 I Maya oggi

 Questa struttura del cosmo è stata tramandata dalle popolazioni di stirpe maya fino al giorno d’oggi. È il caso dei Maya tzotzil, abitanti degli altopiani del Chiapas, in Messico, che hanno conservato una visione dell’universo molto simile a quella dei Maya classici, che comprende le due piramidi, la base terrestre quadrangolare e la grande ceiba centrale, sulla quale si arrampicavano i personaggi e i curatori più importanti per ascendere al cielo come divinità. Il sole, il Santo Padre, era posto al tredicesimo livello della piramide celeste e la sua apparizione a est era preceduta da Mukta Ch’on, un serpente che impersonifica Venere. Anche il tragitto del sole degli tzotzil ha forma circolare: l’astro sale un gradino della piramide celeste ogni ora a bordo del suo carro, lungo una strada di fiori, e di notte scompare nel mare per illuminare il mondo sotterraneo, chiamato Olontik. Infine, come presso i Maya classici, anche per gli tzotzil il mondo è il risultato della perenne lotta tra le divinità celesti, benefiche forze positive, e quelle sotterranee, forze distruttive e negative. In entrambi i casi, bene e male sono due tasselli imprescindibili per l’equilibrio cosmico.


 Questa era l'America prima di Colombo e prima dei massacri da parte dei conquistadores. Nemmeno allora era immune da stermini e da atroci sacrifici umani, perché gli uomini sanno compiere atrocità a prescindere dall'etnia di appartenenza.
 Ma per me rimane l'America più autentica, quella che oggi molte volte è dimenticata e sepolta da un'Europa che, a distanza di 522 anni, ancora non ha imparato a conoscere e ad accettare il "diverso".
  





Fonti:

-          DE LA GARZA, Mercedes, “Origen, estructura y temporalidad del cosmos” in AA.VV., Religión maya, Editorial Trotta, Madrid, 2002, pp. 54, 68-72;

-          LONGHENA, Maria, Scrittura maya – Ritratto di una civiltà attraverso i suoi segni, Mondadori, Milano, 2011, pp. 68-73;

-          THOMPSON, John Eric Sydney, La civiltà maya, Einaudi, Torino, 1994, pp. 276-279.





[1] Mercedes De La Garza ipotizza che questo appellativo possa derivare da “Arcangelo” o “Angelo”, esseri che anche nell’immaginario cattolico possiedono ali piumate.


[2] La divinità creatrice era rappresentata da un serpente piumato. In area maya, il dio che svolge la funzione di creatore è chiamato Itzamná.